Il G8 che si è chiuso ieri a L’Aquila con un indubbio successo politico, diplomatico e organizzativo e con una ricaduta d’immagine di cui il nostro Paese aveva sicuramente bisogno rischia di essere ricordato come il canto del cigno di un mondo fondato sulle ideologie e gli schemi del Novecento, in procinto d’essere soppiantato da un mondo nuovo, i cui equilibri sono e saranno molto diversi da quelli a cui eravamo avvezzi. E non stiamo alludendo solo al fatto che gli stessi protagonisti del vertice sono i primi ad ammettere - pur con diverse sfumature - come questa formula in auge da 25 anni sia ormai superata e che un G14 appare decisamente più consono alla realtà planetaria e più attrezzato ad affrontarne le sfide. Il vertice aquilano - al di là delle oggettive conquiste in termini di lotta alla povertà e di sicurezza alimentare con stanziamenti che hanno superato di ben 5 miliardi di dollari gli ammontari messi in preventivo (l’Italia concorrerà con 450 milioni), dell’accentuarsi dell’attenzione alla dimensione sociale, dell’impegno contro le armi nucleari, dello sforzo di tracciare nuove e più sicure regole per i mercati finanziari - si segnala infatti a nostro parere per due novità, solo apparentemente in conflitto fra loro. La prima è che la voce di paesi come la Cina e l’India, giganti demografici e da anni ormai anche economici, si è fatta sentire spezzando il cerchio dei riti e delle consuetudini occidentali con una serie di veti che hanno finito per attrarre il consenso di una vasta parte di quelle nazioni emergenti - dall’Egitto all’America Latina, dall’Indonesia al Messico - che non sono più disposte ad accettare passivamente le decisioni del ricco club occidentale. Ne è una riprova il mancato accordo globale sul clima, accolto sì dal vecchio salotto buono del G8 ma respinto dai due giganti asiatici e dai loro nuovi alleati, il che segna la prima vera battuta d’arresto nella marcia finora trionfale di Barack Obama nel ridisegno dell’economia e della politica mondiale.Ma c’è un rovescio della medaglia, non meno promettente: lo sfilacciarsi di un club oggettivamente anacronistico come il G8 (anacronistico almeno quanto lo è l’assetto del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che rappresenta, come ha pubblicamente sottolineato ieri lo stesso Berlusconi a chiusura del vertice, una realtà scaturita da una guerra del secolo scorso), l’invecchiare di istituzioni come lo stesso Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale sono il segno eloquente di un bisogno di modernità che preme sotto la crosta delle vecchie regole perché se ne istituiscano di nuove. Non a caso lo speculare sorgere di nuove formule come il G14 o anche il G20 avvicina molto più di quanto non allontani nazioni che fino a ieri stentavano a parlarsi e ad intendersi o che - è il caso dell’Africa - non venivano contemplate e non avevano voce. Questo è il messaggio sotto traccia che ci pare di cogliere dal summit dell’Aquila: fronteggiare la grande crisi economica mondiale è una formidabile occasione per ridisegnare i rapporti internazionali. O, come dice Barack Obama, «credo che siamo in un periodo di transizione. Stiamo cercando la formula giusta che combini l’efficienza e la capacità di agire con l’inclusività». Parola quest’ultima di grande rilevanza e significato. Perché questo allargarsi a una pur rischiosa collegialità mondiale sarà probabilmente il miglior antidoto possibile a quella "società liquida" lucidamente teorizzata da Zygmunt Bauman che è il vero grande morbo sociale che l’Occidente ha trasmesso ad ogni angolo del mondo. Esattamente l’opposto di quanto il G8 dell’Aquila e i vertici che seguiranno si sono riproposti: di mettere cioè l’uomo e la persona al centro di ogni futuro progetto.