venerdì 28 novembre 2008
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Se l'obiettivo dei terroristi era quello di catturare l'attenzione mediatica tramite il terrore, ebbene l'obiettivo è stato tragicamente raggiunto. L'orrore è sotto i nostri occhi: le fiamme e il fumo delle esplosioni, lavoratori, turisti, passanti barbaramente assassinati, la cattura di ostaggi, per buona parte occidentali, la lunga incertezza sulla loro sorte. E come spesso accade, la violenza colpisce famiglie indifese, operatori economici e imprenditori che si trovavano a Mumbai per rafforzare i legami economici e commerciali con questo nuovo gigante dell'economia mondiale. Alle vittime, e alle loro famiglie, deve andare il nostro primo pensiero. Nel rincorrersi delle notizie, alcuni elementi sembrano già chiari: si è trattato di una serie di attacchi coordinati contro obiettivi estremamente visibili, con l'uso di attentatori suicidi e di commandos per l'uccisione e la cattura di cittadini stranieri. Alta spettacolarità, notevole organizzazione, consueta ferocia nell'esecuzione. Tutto fa pensare che si tratti di un'operazione di matrice jihadista, non legata quindi alle tensioni locali fra le comunità etno-religiose indiane che in questi mesi hanno scosso tragicamente il Paese. Si è parlato di al-Qaeda quale mandante e ispiratrice, al di là delle formazioni islamico-radicali che hanno rivendicato gli attentati. Al momento è difficile capire se si tratti di un'azione pensata e realizzata sotto il controllo del comando storico della rete di Benladen. Certo sono evidenti le somiglianze e l'aderenza al concetto di "jihad" globale e alle tecniche usate nei grandi attacchi dell'ultimo decennio. Colpire ovunque e con ogni mezzo i "nemici dell'islam", in particolare americani e britannici. Diffondere il terrore, minare i ponti della moderazione, provocare risposte estreme. L'ideologia qaedista vive di contrapposizioni forti e di odio viscerale. Ha bisogno del disordine per prosperare. Duramente sconfitti in Iraq, ove sono stati combattuti dagli stessi sunniti iracheni che li avevano all'inizio sostenuti, i guerriglieri jihadisti sembrano essere rifluiti nei loro santuari fra Afghanistan e Pakistan. L'India è per essi un bersaglio perfetto: territorialmente vicina e nemica storica del Pakistan, considerata una delle potenze che opprime i musulmani, in particolare nella regione del Kashmir. Delhi ha inoltre siglato un importante accordo nucleare con gli Stati Uniti, che ne rafforza il prestigio internazionale, l'avvicina politicamente a Washington e rende più manifesta la marginalizzazione militare e politica del Pakistan. E l'India sostiene e aiuta il governo anti-talebano di Karzai in Afghanistan. Nel Paese operano da molti anni cellule terroristiche a lungo finanziate e addestrate dai potenti servizi segreti militari pakistani (Isi, Inter Service Intelligence) per sostenere la lotta degli indipendentisti kashmiri. Dopo l'11 settembre 2001, il generale Musharraf aveva imposto ai militari di ridurre il sostegno a tali movimenti e di limitarne le azioni. Oggi la nuova leadership è divisa e debole, con le Forze armate alla finestra, e un'evidente deriva radicale. Miscela pericolosa che favorisce deviazioni e alimenta sospetti. Il governo indiano ha già affermato che i mandanti risiedono in nazioni limitrofe: un chiaro riferimento a Islamabad. Al di là degli avvertimenti, Delhi ha dimostrato di saper reagire con moderazione ai gravi attentati di matrice islamica del passato. Ma sarebbe estremamente pericoloso, anzi da incoscienti, derubricare questi fatti a «problema della regione». È invece cruciale che l'intera comunità internazionale torni a prestare attenzione alle vicende dell'Asia centro-meridionale: servono meno enfasi sulla "guerra al terrore" e maggiori impegni concreti a difesa delle forze moderate e delle minoranze minacciate.
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