venerdì 17 luglio 2009
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Il Sud è in agonia. Lo dice, spietatamen­te, l’ultimo Rapporto Svimez sullo stato dell’economia meridionale. In dieci anni, tra il 1997 e il 2008, circa settecentomila per­sone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Non si tratta di manovalanza generica, co­me era accaduto nel passato, ma dei giova­ni della potenziale classe dirigente meri­dionale, che fuggono dalle loro regioni di provenienza – l’87% viene da Campania, Puglia e Sicilia – dopo averne utilizzato le risorse per qualificarsi. E il fenomeno è in continuo aumento: «Nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è bal­zata a quasi il 38%», rileva il Rapporto. Non solo. La fuga si verifica sempre più in anticipo. Rispetto ai primi anni 2000 sono «cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano». C’è poi il fenomeno dei pendolari 'di lun­go raggio', che vivono al Sud e lavorano al Centro-Nord o all’estero, rientrando a casa nel weekend o un paio di volte al mese. Nel 2008, dice il Rapporto, sono stati centoset­tantatremila gli occupati residenti nel Mez­zogiorno ma con un posto di lavoro altro­ve, ventitremila in più del 2007 (+15,3%). Anche in questo caso si tratta di giovani con un livello di studio medio-alto: l’80% ha me­no di 45 anni, quasi il 50% svolge professioni di livello elevato e il 24% è laureato. Non sembra esagerata, davanti a queste ci­fre, la diagnosi complessiva contenuta nel Rapporto, dove l’Italia viene definita un «Paese spaccato in due sul fronte migrato­rio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno, corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera». Per quelli che rimangono, il destino è segnato: nel 2008 – sempre secondo il Rapporto – solo il 17% dei giovani meridionali tra i 15 e i 24 anni lavora, contro il 30% del Centro­Nord. Per non parlare dello smantellamento del sistema creditizio meridionale, che tra il 1990 e il 2001 ha visto diminuire del 46% il numero delle banche. Un fenomeno che ha creato una «forte dipendenza del sistema bancario meridionale dal Centro-Nord» e ha reso sempre più difficile alle imprese del Sud l’accesso al credito. È il momento di riflettere su ciò che sta ac­cadendo, prima che sia troppo tardi. Da molti anni ormai, l’antica 'questione me­ridionale' sembra essere stata cancellata dall’agenda politica del nostro paese. Al­l’impegno profuso nel dopoguerra dai go­verni nazionali per risolverla è subentrato, via via che gli insuccessi della politica me­ridionalista si accumulavano, un misto di frustrazione, di rassegnazione e perfino di fastidio. L’idea che si è fatta strada è che – parafrasando quanto Sciascia diceva ama­ramente della Sicilia – il Sud sia irredimibi­le. Nel frattempo è esplosa, sempre più ag­gressiva, la 'questione settentrionale', po­sta in primo piano da un Nord sempre più insofferente dei gravami imposti alla sua crescita dal ritardo del Mezzogiorno e sma­nioso di liberarsene agitando la bandiera di un certo federalismo. Ma veramente è corretto questo modo di presentare il problema? A metterlo in dub­bio sono le pacate parole del capo dello Sta­to. «Il fatto che le politiche di riequilibrio territoriale messe in atto in passato abbia­no conseguito risultati insufficienti – ha os­servato Napolitano – rende certamente in­dispensabile un forte impegno di efficien­za e di innovazione da parte delle istituzio­ni meridionali; ma questo impegno non sa­rebbe sufficiente senza il supporto di una strategia di politica economica nazionale mirata al superamento dei divari in termi­ni di dotazione di infrastrutture, di investi­mento in capitale umano, di rendimento delle amministrazioni pubbliche e di qua­lità dei servizi pubblici». Solo un federalismo che si faccia carico di mettere a punto questa strategia può ri­spondere agli interessi non solo del Sud, ma dell’intero Paese. La linea dell’egoismo re­gionalistico può dare vantaggi immediati, ma alla lunga rischia di dissolvere l’identità nazionale. E questo una politica responsa­bile verso il bene comune non se lo può permettere.
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