Il Sud è in agonia. Lo dice, spietatamente, l’ultimo Rapporto Svimez sullo stato dell’economia meridionale. In dieci anni, tra il 1997 e il 2008, circa settecentomila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno. Non si tratta di manovalanza generica, come era accaduto nel passato, ma dei giovani della potenziale classe dirigente meridionale, che fuggono dalle loro regioni di provenienza – l’87% viene da Campania, Puglia e Sicilia – dopo averne utilizzato le risorse per qualificarsi. E il fenomeno è in continuo aumento: «Nel 2004 partiva il 25% dei laureati meridionali con il massimo dei voti; tre anni più tardi la percentuale è balzata a quasi il 38%», rileva il Rapporto. Non solo. La fuga si verifica sempre più in anticipo. Rispetto ai primi anni 2000 sono «cresciuti i giovani meridionali trasferiti al Centro-Nord dopo il diploma che si sono laureati lì e lì lavorano». C’è poi il fenomeno dei pendolari 'di lungo raggio', che vivono al Sud e lavorano al Centro-Nord o all’estero, rientrando a casa nel weekend o un paio di volte al mese. Nel 2008, dice il Rapporto, sono stati centosettantatremila gli occupati residenti nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro altrove, ventitremila in più del 2007 (+15,3%). Anche in questo caso si tratta di giovani con un livello di studio medio-alto: l’80% ha meno di 45 anni, quasi il 50% svolge professioni di livello elevato e il 24% è laureato. Non sembra esagerata, davanti a queste cifre, la diagnosi complessiva contenuta nel Rapporto, dove l’Italia viene definita un «Paese spaccato in due sul fronte migratorio: a un Centro-Nord che attira e smista flussi al suo interno, corrisponde un Sud che espelle giovani e manodopera». Per quelli che rimangono, il destino è segnato: nel 2008 – sempre secondo il Rapporto – solo il 17% dei giovani meridionali tra i 15 e i 24 anni lavora, contro il 30% del CentroNord. Per non parlare dello smantellamento del sistema creditizio meridionale, che tra il 1990 e il 2001 ha visto diminuire del 46% il numero delle banche. Un fenomeno che ha creato una «forte dipendenza del sistema bancario meridionale dal Centro-Nord» e ha reso sempre più difficile alle imprese del Sud l’accesso al credito. È il momento di riflettere su ciò che sta accadendo, prima che sia troppo tardi. Da molti anni ormai, l’antica 'questione meridionale' sembra essere stata cancellata dall’agenda politica del nostro paese. All’impegno profuso nel dopoguerra dai governi nazionali per risolverla è subentrato, via via che gli insuccessi della politica meridionalista si accumulavano, un misto di frustrazione, di rassegnazione e perfino di fastidio. L’idea che si è fatta strada è che – parafrasando quanto Sciascia diceva amaramente della Sicilia – il Sud sia irredimibile. Nel frattempo è esplosa, sempre più aggressiva, la 'questione settentrionale', posta in primo piano da un Nord sempre più insofferente dei gravami imposti alla sua crescita dal ritardo del Mezzogiorno e smanioso di liberarsene agitando la bandiera di un certo federalismo. Ma veramente è corretto questo modo di presentare il problema? A metterlo in dubbio sono le pacate parole del capo dello Stato. «Il fatto che le politiche di riequilibrio territoriale messe in atto in passato abbiano conseguito risultati insufficienti – ha osservato Napolitano – rende certamente indispensabile un forte impegno di efficienza e di innovazione da parte delle istituzioni meridionali; ma questo impegno non sarebbe sufficiente senza il supporto di una strategia di politica economica nazionale mirata al superamento dei divari in termini di dotazione di infrastrutture, di investimento in capitale umano, di rendimento delle amministrazioni pubbliche e di qualità dei servizi pubblici». Solo un federalismo che si faccia carico di mettere a punto questa strategia può rispondere agli interessi non solo del Sud, ma dell’intero Paese. La linea dell’egoismo regionalistico può dare vantaggi immediati, ma alla lunga rischia di dissolvere l’identità nazionale. E questo una politica responsabile verso il bene comune non se lo può permettere.