La si potrebbe chiamare la maledizione della fortuna, o la sfortuna della fortuna. È quella che inesorabilmente colpisce i vincitori di grandi somme di denaro, coloro che con una piccola puntata al Superenalotto (o ad altri giochi d’azzardo) confidano di dare un colpo di reni alla propria esistenza troppo normale. Ed è una costante che fa paura e induce a meditare, tanto che un sociologo americano ha condotto uno studio, durato ben vent’anni, in cui si annota come
il novanta per cento dei “grandi vincitori” finisca suicida o vittima di omicidio, infelice e in disperata solitudine, e comunque con le tasche vuote. Anche in Italia di esempi se ne contano a decine, a Nord come a Sud, a dimostrazione che il denaro, quando non è guadagnato e piove tra le mani come una manna dal cielo, è materiale pericoloso, e finisce per ustionare chi lo maneggia. Anche perché queste grandi vincite spesso se le aggiudica chi, vivendo in condizioni economiche precarie o appena normali, ha meno dimestichezza di altri col danaro, con gli investimenti e con l’oculatezza, la competenza e la misura che il suo possesso richiederebbe sempre. La ricchezza, quella pulita e non carpita fraudolentemente, comporta un lungo e abile esercizio di misura e di equilibrismo, che agli improvvisati beneficiari della ruota della fortuna è negato. Il più delle volte costoro perdono la testa per un tenore di vita da sballo, in emozioni forti mai provate e nella perdizione. Si finisce per dilapidare tutto in breve tempo: in dissolutezze, auto di lusso, grandi viaggi, tavolo verde e altre frivolezze del genere. Si cerca magari l’appagamento nello sfarzo dei beni sfavillanti, ignari che la felicità è quasi sempre una piccola cosa e che molto spesso si è felici con poco e infelici con molto. Uno scrittore facondo, Titta Madìa sr scriveva: «La ricchezza può dare il piacere, che è un fresco e un caldo delle carni; non dà la felicità, che è un problema di leggi interiori». E le leggi interiori valgono molto, molto di più di una fortuna milionaria.