Qualcuno a Foggy Bottom, dove ha sede il Dipartimento di Stato americano a Washington, ha riesumato a mezza voce un vecchio proverbio,
locking the stable door after the horse has bolted, che grosso modo – qui si parla di cavalli e non di buoi – equivale al nostro 'chiudere la stalla quando i buoi sono scappati'. Perché questo e non altro è il tardivo invio di marines a presidiare il confine caldo del Nordafrica: una macroscopica ammissione della miopia con cui Washington ha gestito l’
affaire libico, a cominciare dall’imbarazzante balletto di versioni attorno alla morte dell’ambasciatore Chris Stevens, ucciso da un commando durante l’attacco al consolato americano di Bengasi l’11 settembre 2012.
Potranno 200 marines dislocati a Sigonella e un paio di unità di pronto intervento fungere da gendarmi in uno scacchiere tormentato e instabile come quello che va dalla Siria al Polisario, dal Mali alla Somalia come per decenni fecero i parà francesi a tutela delle vaste colonie africane? Certamente no. L’errore, anzi, gli errori stanno a monte e due realtà scolpite con durezza ci stanno a guardare: quella siriana e quella libica. La prima, da due anni una deriva incontrollata e prigioniera dei veti incrociati di Russia e Cina, nonché dalla scarsa volontà americana di intervenire sul campo dopo gli insuccessi in Afghanistan e in Iraq; la seconda, un esemplare paradigma di una rivoluzione che l’Occidente – ma soprattutto la Francia – ha sostenuto dapprima con motivazioni umanitarie, ma che rapidamente si è mutata nel disegno di rimuovere Gheddafi dal potere, inaugurando nell’antica colonia italiana una democrazia su modello occidentale. Tunisia, Egitto, Giordania, Yemen, Marocco, Bahrein, tutto il fronte del Maghreb in sommovimento facevano ben sperare, e l’illusione di un processo di democratizzazione del mondo arabo sembrava a portata di mano. Si trattava in tutta evidenza di una collettiva distorsione di parallasse, quella
Wunschvorstellung che Schopenhauer additava quale ingannevole percezione del mondo veicolata dalle proprie aspettative più che dalla nuda realtà delle cose.
Perché la realtà, in una Libia dove predominano i conflitti tribali (e religiosi), dove la violenza privata e la divisione in fazioni armate sono di casa, dove si assedia il ministero degli Esteri a Tripoli con mezzi blindati e dove si fa esplodere un’autobomba nei pressi di un ospedale a Bengasi, dove è tuttora impossibile costituire un corpo di polizia e riorganizzare l’esercito è quella di un Paese senza guida e dall’incerto futuro. Basti pensare al truce scenario che si prospetta confrontando la situazione in Cirenaica con quella in Tripolitania: a Bengasi si scende in piazza per protestare contro le milizie islamiste e i jihadisti che impediscono l’affermarsi di uno Stato di diritto e il ritorno a una convivenza civile accettabile; a Tripoli è ancora vivo lo scontro fra fazioni e tribù fedeli a Gheddafi e militanti della rivoluzione. Quanto basta per accendere una guerra civile e strozzare sul nascere l’avvenire di un Paese dalle vastissime risorse naturali e dalle grandi possibilità di crescita.
E c’è una terza realtà, quella del Fezzan, l’immensa area desertica che confina con Ciad e Niger, da secoli crocevia di carovanieri berberi, oggi affollato scalo di transito del jihadismo subsahariano dopo che l’intervento francese nel Mali (peraltro il primo dell’era moderna quasi totalmente privo di immagini e di testimonianze dirette) ha imposto al qaedismo di cercare rotte di comunicazione meno battute. Ed è proprio questo il male oscuro della Libia e insieme – come denuncia la stampa americana –
the bitter harvest, l’amaro raccolto dell’Occidente: ritrovarsi cioè con la più folta succursale di al-Qaeda nel cuore del Mediterraneo, a un passo dal focolaio siriano e dalle fragili repubbliche tunisina ed egiziana, ghermite e assediate dal più intollerante dei salafismi. Un male oscuro che nessun contingente di marines potrà guarire, perché figlio e specchio delle miopie americane e di molta ignavia europea, attratta dalle prospettive di buoni affari più che dall’idea di cooperare alla rinascita democratica del mondo arabo. E presunzioni e affari, come si vede, non bastano.