Ci siamo ripetuti sino alla nausea che “tutto cambierà” a causa della pandemia. E che la sfida, d’ora in poi, è quella di cambiare le cose in meglio: più salute, più giustizia, più rispetto. Sì, più rispetto: per tutti e tra tutti i popoli, tra di noi e nel nostro rapporto con la natura che ci ha drammaticamente ricordato di essere, alla fine e per principio, più forte di qualunque tecnologia, umana e disumana. Non tutto è fermo, ma basta dare una rapida occhiata allo stato delle nazioni e del mondo per capire che purtroppo non ci stiamo muovendo nella giusta direzione. C’è ancora modo e tempo (non molto, però) per correggerci. E c’è qualcosa, qui in Italia, che si può mettere in cantiere subito e non richiede investimenti miliardari, ma solo onesta volontà di sgombrare un bel po’ di ombre dalla vita e dalle attività del Paese.
Si tratta di riconoscere che persone e lavoratori di origine straniera ora, appunto, ridotti legalmente a ombre hanno invece volto e corpo, chiari diritti e chiari doveri. Si tratta, insomma, di dare regole e status, controlli e garanzie a chi vive e lavora nell’irregolarità. Parliamo di circa 600mila donne e uomini (metto le donne per prime non solo e non tanto per cortesia, ma perché sono la maggioranza delle persone di cui stiamo parlando).
Qualcuno già parla di “sanatoria”, magari storcendo naso e bocca come se si stesse confezionando un regalo per personaggi che non lo meritano. E c’è chi si è premurato di far partire il solito ritornello contro il “clandestino” che ruberebbe il lavoro agli italiani e va sbattuto fuori dal Bel Paese. Ma vale la pena di ragionare appena un po’ e di aprire gli occhi sulla realtà italiana degli “irregolari” di origine straniera, esercizio virtuoso e soprattutto utile, al quale più d’uno – con particolare efficacia Andrea Riccardi – ha invitato nella settimana che ci sta alle spalle. Se a ragionare si prova per davvero, se si mettono da parte slogan e invettive d’occasione, si arriva presto alla conclusione che siamo davanti a un passaggio necessario.
Stiamo parlando, infatti, di braccianti agricoli necessari ai nostri campi, di autotrasportatori che portano le mostre merci, di muratori e manovali impegnati nei nostri cantieri. Stiamo parlando di un vero esercito di badanti e collaboratrici familiari, donne che abitano e servono l’intimità delle nostre famiglie. Sul serio qualcuno pensa che per ripartire col piede giusto dopo il blocco da coronavirus si possano lasciare tutte queste persone e la loro opera nel “nero”, ai margini e fuori dalle regole e dalle tutele – anche sanitarie, ovvio – poste a generale presidio? Per davvero qualcuno ritiene che di loro si possa fare a meno? C’è solo da riconoscere una realtà. C’è da curare una ferita aperta. E, sì, c’è da far più sano il domani di tutti.