Ora che la crisi economica ha preso a mordere interi comparti produttivi, sulle comunità rischia d’abbattersi una nuova povertà. Molte famiglie dai redditi modesti, ma anche di ceto medio, potrebbero infatti non reggere l’urto finale della perdita del lavoro o anche solo della riduzione delle entrate dovuta alla messa in cassa integrazione. Innescando così un drammatico effetto-domino fatto di bollette non pagate, rate di mutuo saltate, pignoramenti, impossibilità di mantenersi. In un crescendo di disagio sociale che non può lasciare indifferenti né le istituzioni né la società. E che è da tempo oggetto di crescente attenzione da parte della Chiesa. Diciamolo subito: non sono poche le iniziative di contrasto alla povertà, attivate nel corso dei decenni: accanto a strutture più visibili come le mense della Caritas sta un tessuto davvero capillare di centri d’ascolto sparsi nelle parrocchie, nei quali viene svolto un lavoro tanto discreto quanto prezioso. Una rete di volontari che agisce sul territorio offrendo anzitutto ascolto, indirizzando, educando le persone a un corretto stile di vita economico. Capace di assicurare nel contempo una serie di aiuti concreti: dai pacchi alimentari al pagamento delle bollette, dai contributi a fondo perduto al microcredito. Purtroppo, però, è già oggi evidente che tutto questo 'patrimonio' rischia di non bastare, come dimostra il caso della diocesi di Rimini, 'travolta' dall’incremento delle richieste d’intervento, dopo aver distribuito 2 milioni di euro di microprestiti negli ultimi anni. Certo, altro ancora si potrà – e si dovrà – fare sollecitando la solidarietà dei cittadini e cercando di mobilitare a questo scopo primario risorse normalmente destinate ad altre attività della Chiesa stessa. L’iniziativa dell’arcidiocesi di Milano di creare un nuovo fondo di solidarietà testimonia una volontà che si muove in questa direzione. Lo stesso dicasi per Prato. Fin da ora, però, occorrerebbe riflettere su come moltiplicare questi aiuti, incanalarli correttamente e soprattutto come sia possibile operare in sinergia tra enti pubblici, comunità ecclesiale e volontariato laico. Se è vero, infatti, che ruoli e compiti sono distinti, non di meno la crisi impone a livello territoriale di unire forze, risorse e intelligenze. Nell’aiuto ai poveri il knowhow, il 'saper fare', conta non meno che in un’impresa. Essere presenti sul campo da decenni nell’ascolto dei bisogni delle famiglie, aver verificato centinaia di migliaia di casi, saper distinguere pure chi necessita anzitutto di mutare comportamenti di spesa, non sono capacità che si improvvisano. Sarebbe un vero 'delitto', invece, se gli aiuti pubblici, già limitati, finissero dispersi nelle pastoie burocratiche, bloccati dalla necessità di rispettare questo e quel criterio, produrre questo e quel documento. Come dimostra la tormentata vicenda della social card, la burocrazia è la prima nemica dei poveri. La solidarietà – a maggior ragione quella esercitata dallo Stato – non può infatti esprimere l’intera sua potenzialità se prescinde dalla sussidiarietà. Dalla valorizzazione, cioè, di quei corpi intermedi che sono più vicini alle realtà di bisogno. Ecco perché sarebbe necessario attivare subito tavoli di confronto nei diversi territori, mettendo insieme enti locali, realtà non profit, caritas e parrocchie. E senza nulla togliere all’assistenza pubblica, che ha propri obblighi e destinatari, pensare a come gli stessi enti locali – in una cornice condivisa di criteri di controllo – possano contribuire assieme alle comunità cristiane e ai gruppi di volontariato a tene re in piedi le tante tessere traballanti, che altrimenti rischiano di far crollare il domino del Paese.