Guerre di religione? No, grazie. Le religioni hanno altro da fare: ricercano e costruiscono basi per la convivenza civile e per l’edificazione della pace. E in questa prospettiva neppure può sfuggire lo stretto legame che collega, nel giro di una settimana, la visita compiuta da Francesco al sacrario militare di Redipuglia all’odierno passaggio a Tirana. Le parole pronunciate sabato scorso dal Papa tra le tombe di una guerra mondiale del passato e davanti a una guerra mondiale «a pezzi» del presente sono parole che squarciano la storia della coscienza collettiva. S’inseriscono nella riflessione sulla guerra che i Papi hanno sviluppato nell’ultimo secolo, e la portano al culmine per l’estrema lucidità con la quale Francesco indica gli interessi e le avidità di potere e di denaro che stanno «dietro le quinte» delle guerre perpetrate dai «pianificatori del terrore». Il Papa ha definitivamente sepolto l’ammissibilità di un ricorso legittimo alle armi. Quale credente dopo quelle parole potrà ancora parlare, oggi, di «guerra giusta»?
Francesco ha parlato d’«ideologia», mai ha nominato la religione come fattore di giustificazione della «cupidigia, dell’intolleranza, dell’ambizione al potere» che sono il marchio proprio della guerra. L’autentica religione, al contrario, è fonte di pace: «Un leader religioso è sempre uomo o donna di pace, perché il comandamento della pace è iscritto nel profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo». E quindi, ripete con forza e ormai da più di un anno il Papa, «non può esservi nessuna giustificazione religiosa alla violenza». Utopia non sono la fattiva possibilità del dialogo, la coesione sociale le concrete e sempre percorribili vie della pace. Utopia è che con la guerra si possa ripristinare la giustizia. È la storia a insegnarlo, è la realtà che lo conferma, non le convinzioni personali del Vescovo di Roma. «Ma quando capiremo la lezione?», ha chiesto dal pulpito di San Pietro il giorno seguente la visita ai cimiteri della Grande Guerra.
A distanza di una settimana Francesco presenta ora un’altra “lezione”, che ancora una volta ci viene dalla realtà e che intende riproporre all’attenzione di tutti, andando incontro anche ai “ritardatari” di quella precedente. Il Papa ci porta oggi con sé in un Paese dei Balcani. Regione storicamente flagellata dai venti delle contrapposizioni etniche e da sempre crocevia della pace e della guerra in Europa. Ci porta in una terra, l’Albania, che è potenzialmente ponte tra Oriente e Occidente e porta le cicatrici di un passato tragico. Segnato dall’oppressione e dalla chiusura di una dittatura ateistica (la prima al mondo ad avere nella Costituzione l’ateismo pratico) che ha represso e perseguitato sistematicamente tutte le diverse religioni presenti.
in Albania, oggi, proprio queste diverse comunità religiose – tra le quali l’islam è assolutamente maggioritario – convivono e collaborano pacificamente sul piano civile e sociale. Anzi, di più. Nella fondazione odierna di quello Stato la laicità delle istituzioni e soprattutto il pluralismo religioso sono considerati come un pilastro dell’ordinamento, uno degli elementi fondanti e costitutivi dell’unità nazionale. Una realtà concreta e attuale, che smonta visioni distorte e smentisce quanti usano il nome di Dio e strumentalizzano ideologicamente le diverse fedi per alimentare conflitti e violenze. L’Albania ha scommesso sulla possibilità di costruire una società civile multireligiosa e la storia le ha dato ragione. E proprio questa caratteristica che contraddistingue nobilmente il Paese è quella che oggi la presenza del Papa vuole mettere in luce. Lo ha già detto, del resto, con chiarezza lui stesso: «Vado in Albania perché? Perché sono riusciti a fare un governo – pensiamo ai Balcani! –, un governo di unità nazionale tra islamici, ortodossi e cattolici, con un consiglio interreligioso che aiuta ed è tanto equilibrato». Insomma, l’Albania spicca come esempio. Tirana, nonostante le difficoltà, ha scelto la via del dialogo, e le diverse componenti religiose hanno lavorato insieme e insieme continuano ad agire, come autentiche mediatrici, sapendo che il guadagno è la pace condivisa. Oggi «la presenza del Papa è per dire a tutti i popoli: “Si può lavorare insieme!” ». È la via di un dialogo non astratto: il dialogo interreligioso non meramente diplomatico, il dialogo intessuto nelle relazioni, tenace, paziente, coraggioso, fraterno, intelligente, per il quale niente è perduto. Quel dialogo che Papa Francesco, con parole e opere, continua incessantemente a testimoniare come «via imprescindibile della pace», che «è responsabilità di tutti» e «dovere di ogni cristiano». Dovere è scritto (notare il verbo). E non è retorica chiedersi adesso quando anche noi impareremo questa “lezione”.