Quale che sia l’esito, si tratta comunque di un’opportunità utile quanto meno a lanciare determinati messaggi e a rivalutare il nostro rango di "Paese fondatore" della Ue. Sono passati 11 anni dall’ultimo semestre a presidenza italiana. Era il 2003 e l’inizio ce lo ricordiamo tutti: nella seduta del Parlamento europeo del 2 luglio Silvio Berlusconi, allora capo del governo italiano, ebbe un duro scontro con Martin Schulz, vicepresidente del gruppo socialista (e oggi candidato a continuare a presiedere il rinnovato Parlamento Ue). Undici anni dopo, domani, sarà Renzi a tenere il classico discorso in cui illustrerà ai 751 neo-eletti le priorità della presidenza di turno. E sarà bene (ma questo è anche l’orientamento di Renzi, fa filtrare Palazzo Chigi), con l’Assemblea in rodaggio e la partita delle nomine in corso per la futura Commissione, che queste si concentrino su poche grandi iniziative politico-economiche. Principalmente la gestione della "nuova-vecchia" flessibilità sui conti nazionali, che è la novità scaturita dall’ultimo Consiglio europeo (nuova, perché mai così sottolineata in precedenza; vecchia perché, come specificato nelle conclusioni, si tratta di quella «già prevista dal Patto di stabilità», senza una sua vera riforma), oltre alla questione dell’approvvigionamento energetico; e il proseguimento di dossier già aperti, come l’Ucraina appunto (strettamente collegata all’energia), l’emigrazione e l’Unione bancaria. Mentre l’attività di rilancio dell’integrazione comunitaria, ancor più importante dopo la forte avanzata delle forze euroscettiche alle recenti elezioni e la conseguente ripresa dell’autoisolamento britannico (plasticamente reso dal primo ministro David Cameron con l’opposizione a oltranza, in compagnia soltanto dell’ungherese Orban, alla designazione di Juncker alla guida della Commissione), potrà avere al massimo una funzione propedeutica a decisioni e iniziative che giungeranno a maturazione non prima del 2015.
Riflettori in primo luogo sulla flessibilità, dunque. Anche qui, tuttavia, bisogna essere consapevoli che le svolte, in ambito Ue, maturano sempre per piccoli passi, quasi impercettibili. Una volta scartati i propositi baldanzosi circolati nei mesi scorsi sull’eventualità di una vera revisione dei Trattati (da quello di Maastricht del 1992 al Fiscal compact del 2012, per i quali serve però l’assenso di tutti e 28 i Paesi), una riprova la si è avuta 4 giorni fa, quando la forte attesa pre-vertice si è tradotta in una battaglia diplomatica per inserire unicamente il concetto di «miglior utilizzo della flessibilità» già prevista. Una svolta, come l’ha presentata il premier Renzi, o un esito deludente? Una risposta su come sarà declinata questa flessibilità la si potrà avere proprio nei prossimi mesi, a partire dal primo impegno (dopo il tradizionale confronto governo-Commissione Ue del 3 e 4 luglio) della presidenza italiana: la riunione dell’Eurogruppo (ministri economici della zona euro) del 7 e quella Ecofin (tutta la Ue) del giorno dopo. Sull’Italia, infatti, incombono due grane non da poco: la già avviata procedura d’infrazione per i ritardati pagamenti alle imprese (che potrebbe portare a una sanzione) e il rischio di una possibile procedura per "debito eccessivo" nel 2015, anno in cui il governo Renzi ha già detto di non poter rispettare – rinviandolo al 2016 – il pareggio di bilancio strutturale, ovvero il pareggio tenendo conto però degli effetti negativi del ciclo economico e delle misure una tantum. Un rinvio che, unito alle incertezze sulla crescita italiana, induce la Ue a ritenere che l’Italia non sarà in grado d’invertire l’andamento del debito pubblico che in linea di massima, secondo il Fiscal compact, dal 2016 dovrebbe ridursi ogni anno di oltre 3 punti di Prodotto interno lordo, cioè oltre 45 miliardi di euro. Sullo sfondo rimane l’altro obiettivo, coltivato da anni, che Renzi stesso ha ricordato venerdì scorso a Bruxelles: lo scorporo dal deficit dei soldi che vanno spesi per cofinanziare i progetti d’investimento alimentati dai fondi Ue. Una partita che vale come minimo 5-6 miliardi, soldi da destinare a quella che resta la sfida di fondo necessaria per agganciare la ripresa: la riduzione delle tasse.
Ed è un match che vivrà un secondo tempo nel Consiglio Ue del 23-24 ottobre, quando all’ordine del giorno ci saranno i "contratti per le riforme" proposti un anno fa dalla Germania e che prevedono incentivi per quei Stati che sviluppano interventi innovativi nella loro legislazione. Certo, avrà il suo peso quel "feeling" che tutto sommato è nato fra Renzi e Merkel ma, come in ogni partita, influiranno anche gli arbitri: per questo è importante che, nell’ambito delle nomine, la poltrona di commissario agli Affari economici sia occupata da una figura a noi più vicina (il francese Moscovici?) rispetto all’ennesimo esponente rigorista del "fronte del Nord". Meno in primo piano rispetto ai conti è il dossier energia, non meno importante però se si considera che quasi il 40% del gas consumato oggi in Europa viene dalla Russia di Putin. È anche sulla spinta di un monito della Commissione Ue che di recente la Bulgaria ha arrestato le attività per costruire South Stream, il gasdotto progettato per portare il gas di Mosca in Italia senza passare per l’Ucraina ma attraverso i Paesi a sud e che vede in primo piano l’Eni e la russa Gazprom. Il pretesto è che non sarebbe in linea con la normativa comunitaria. Nel mentre la Ue ha steso però il tappeto rosso al gasdotto alternativo Tap, che dovrebbe portare il gas (soprattutto azero) fino in Puglia passando per Turchia e Grecia, ma che non sarà pronto prima del 2019. Buttare al vento gli investimenti fatti con South Stream è una grana strategica che non si può ignorare. Così come passi in avanti sostanziali dovranno essere fatti sulla gestione dei flussi migratori: l’ampliamento dell’operatività dell’agenzia Frontex di fatto ancora non c’è. E bisogna agire sul tema del diritto d’asilo e su quello dello status di rifugiato, resi ancora più urgenti dalla nuova strage in mare di ieri.
Il tutto sarà sviluppato in una girandola di circa 160 iniziative, con quasi tutte le 16 riunioni ministeriali ospitate a Milano e non a Roma, per tirare la volata all’Expo (a Milano sarà anche il vertice eurasiatico, in ottobre). Una scelta strategica presa già dal governo Letta, anche se poi proprio il cambio di esecutivo ha creato una qualche approssimazione nella preparazione dell’evento. Un esempio? A oggi il sito ufficiale della presidenza (www.italia2014.eu) non è pienamente attivo, a parte la possibilità di registrarsi, e lo slogan di Renzi sugli Stati Uniti d’Europa. E, per di più, è prevista la traduzione nel solo inglese. D’altronde, anche qui stiamo facendo i conti con la spending review: sono stati stanziati 68 milioni, mentre la Lettonia, che succederà all’Italia, ne spenderà 100; meno persino degli 80 previsti dal Lussemburgo. Ma quel che conta sono le priorità strategiche: poche e chiare, dicevamo. Se la presidenza di turno riuscirà ad affrontare almeno queste, ottenendo linfa per non stroncare i germogli di ripresa, potrà già essere considerato un successo. E l’Europa diverrà quella «terra di speranza» che Renzi auspica.