Mai come oggi è necessario "mettere in agenda" il continente africano. E non solo perché ieri, come da calendario, abbiamo celebrato la "Giornata Mondiale dell’Africa". Ogni anno, infatti, il 25 maggio, su iniziativa dell’Unione Africana (Ua), si fa memoria della fondazione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (Oua), avvenuta nel 1963, a cui è poi subentrato nel 2002, l’attuale organismo panafricano. Ma questo anniversario dovrebbe anche servire per prendere coscienza della centralità di un tema dalla forte valenza geopolitica e geostrategica.Purtroppo, nel nostro Paese, tranne alcune lodevoli eccezioni (come nel caso di questo giornale), l’informazione sulle vicende africane lascia molto a desiderare, sia per quanto concerne i fatti di cronaca, come anche le valutazioni rispetto a certi processi epocali, come quello migratorio. Non è lecito, infatti, limitarsi a raccontare le vicissitudini dei naufraghi provenienti dalla sponda africana, molti dei quali vittime dell’indifferenza planetaria. Andando al di là della questione libica, infatti, c’è davvero un fiume di umanità dolente che spinge dai "bassifondi" dell’Africa Subsahariana, lungo le rischiose carovaniere che attraversano il deserto. Dalla Somalia alla regione sudanese del Darfur, dalla Repubblica Centrafricana al Mali, dalla Nigeria all’Eritrea, si regista una costante spinta verso settentrione. E la causa che determina l’incremento del flusso migratorio è rintracciabile in quella costante dialettica tra gli estremi: progresso e regresso; ricchezza e povertà.Da una parte vi è, in alcuni Paesi, una crescita significativa del Prodotto interno lordo, grazie soprattutto agli investimenti di alcune grandi potenze come la Cina, mentre dall’altra si acuisce l’esclusione sociale e il deficit di virtuosità delle leadership locali. E cosa dire del
land grabbing, l’accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere? Una questione scottante che, unitamente allo sfruttamento della manodopera, pesa sul destino dell’Africa come una spada di Damocle. Nel frattempo, guardando al futuro, le proiezioni del
Dependence index (Di) – un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia lavorativa – dovrebbero far riflettere. Nel 2010, il continente con il "Di" più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Ma l’ufficio statistico dell’Onu prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività (come forza lavoro), con un indice del 56% contro l’82% del Sud America e l’80% del Vecchio Continente. Da rilevare che già nel 2010 gli africani erano un miliardo, mentre nel 2100 potrebbero essere più di 4 miliardi.Una cosa è certa: il continente africano esige un riconoscimento dei diritti che l’attuale globalizzazione dei mercati le sta negando. Occorre, pertanto, superare le tradizionali visioni stereotipate e ideologizzate di certa politica. Quelle che guardano solo alle opportunità del business, trovando una sponda sicura nelle monolitiche oligarchie africane. In questo contesto va comunque detto con chiarezza che l’Unione Europea non fa bella figura. Manca nei fatti una robusta politica comunitaria, col risultato che ogni Paese membro persegue la propria politica africana, acuendo la frammentazione degli interessi di parte che si assommano alla parcellizzazione determinata dal crescente strapotere in Africa del cartello dei Brics (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica) e delle Petromonarchie del Golfo.Serve, pertanto, un significativo rilancio da parte europea di una cooperazione inclusiva (dunque non "respingente") e di investimenti finalizzati al progresso (e non allo sfruttamento), nel rispetto di un welfare africano tutto da inventare, capace di contrastare il pensiero debole e gli interessi forti di chi guarda solo e unicamente alla massimizzazione dei profitti.