domenica 28 settembre 2014
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In Italia e all’estero, si sta riflettendo con sempre maggiore insistenza sulle conseguenze che i cambiamenti introdotti con tanta superficialità in alcuni Paesi, in materia di filiazione, producono e produrranno in futuro, quando i soggetti interessati, coinvolti al di là dalla loro volontà, prenderanno coscienza dei propri diritti e delle limitazioni che hanno dovuto subire. Ci si accorge ad esempio che mentre oggi si ignorano, e si violano, i diritti di alcune persone, soprattutto minori che non possono interloquire e difendersi, questi diritti resistono in natura e prima o poi possono riemergere, se ne può esigere la tutela in termini retroattivi. Anche perché i rapporti naturali non passano in prescrizione. Quando si supera la soglia di una legge ingiusta, si possono poi moltiplicare le ingiustizie, rimanendo impigliati nella logica distorta di base, oppure si può ridurne l’impatto con qualche effetto migliorativo. L’ammissione dell’eterologa ha già fatto nascere in altri Paesi iniziative di singoli, o associazioni, per conoscere l’identità del donatore (genitore naturale), rivendicando il cosiddetto diritto alla verità, riconosciuto dai Codici e dalle Carte internazionali dei diritti umani. È diritto insopprimibile, fondato sull’esigenza di conoscere le proprie radici fisiche e psichiche, necessarie per alcune scelte personali, di comportamento o sanitarie, ma anche in prospettiva per chiedere l’adempimento di doveri di cura e assistenza in particolari situazioni. La legge può stabilire, come fa in alcuni Stati (non in tutti), il diritto all’anonimato, ma questo può non resistere a lungo, perché in conflitto con altri diritti umani, e perché il legame biologico naturale non può essere spezzato, innestato com’è nel corpo e nella mente del bambino che nasce. Giovanni Belardinelli ha riproposto, nei giorni scorsi, sul Corriere della Sera un allarme, non nuovo per i lettori di questo giornale, lanciato da alcune strutture di fisiopatologia della riproduzione per le quali oggi «non ci sono donatori». E non ci sono, o si vanno riducendo, per più motivi: la donazione femminile è possibile solo con una procedura medica defatigante e rischiosa; la donazione maschile deve affrontare la prospettiva che i figli vorranno un giorno conoscere il genitore naturale e magari rivendicare altri diritti legati appunto alla naturalità del rapporto. Il donatore anonimo scopre così di non essere garantito dalle responsabilità. Tutto diviene più grave nella pratica della 'maternità surrogata' e delle sue varianti, che coinvolge più soggetti.  Sylviane Agacinski, filosofa femminista e moglie di Lionel Jospin, in un testo del 2009 recentemente ripresentato con una edizione più ricca, ha definito questa forma di prestazione procreativa una forma moderna di «servitù» della persona umana, messa a disposizione di desideri e comandi altrui. E Avvenire ne ha dato una prova concreta con un articolo di Assuntina Morresi che ha esaminato i termini contrattuali avvilenti, appunto servili, che definiscono i rapporti tra la madre surrogata e i suoi committenti. Ma già oggi gli ordinamenti che legittimano la surrogazione conoscono il conflitto tra madre naturale e madre sociale, quando quest’ultima rivendica il diritto di tenere per sé il bambino che ha avuto in gestazione e ha partorito (al punto che il concetto stesso di 'madre sociale' è ambiguo e insufficiente), in opposizione a chi ha commissionato la gravidanza. Ci sono altre possibilità ancora. Quella sciagurata, dei genitori committenti che rifiutano il bambino se presenta malformazioni o caratteristiche non volute. E quella del figlio che chieda un giorno di conoscere l’intreccio biologico dal quale è nato e giudichi le scelte che ha subito passivamente, con tutte le conseguenze. Si comprende facilmente che possono derivarne diverse conflittualità di diritti, così come potranno prospettarsi doveri a carico di adulti che hanno voluto imporre ad altri la propria volontà sovrana. Il quadro si sconvolge ancora di più se ci si riferisce alla pratica dell’adozione di minore da parte di coppie non eterossessuali, che finisce con negare al minore quel diritto naturale (sancito dalla Carte dei diritti umani) alla doppia genitorialità, base e fondamento per la sua crescita armonica e psichicamente equilibrata. Esercitando un potere pressoché assoluto, si vuole affermare il diritto di chiunque ad avere un figlio, anche senza dargli i genitori cui ha diritto, ma oggi ci si comincia a chiedere: questo figlio non reclamerà un giorno i suoi diritti? Siamo sicuri che non soffrirà per l’assenza di una vera coppia di genitori, e non chiederà d’essere risarcito del danno subito senza che potesse dire nulla mentre gli adulti decidevano del suo futuro guardando soltanto ad un egoistico interesse? Queste domande sino a poco tempo fa sembravano astratte, oggi sono molto concrete, alcune sono già state formulate, e suggeriscono una prima valutazione: può sembrare facile costruire per legge rapporti familiari privi di una base naturale, o contrari a diritti umani essenziali, però nulla può essere dato per scontato e definitivo in un campo che tocca l’identità della persona e la sua coscienza. Di qui l’esigenza di riflettere, vagliare con attenzione ogni opzione normativa in materia di famiglia e filiazione, e non cedere agli slogan del liberismo antropologico più spinto che vuole legittimare ogni scelta, svincolandola dal senso di responsabilità insito nella cura della persona umana.
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