Non è stata una forte sberla, quella che gli elettori turchi hanno dato nelle amministrative di domenica a Recep Tayyip Erdogan, ma non è stata nemmeno la carezza che il primo ministro si aspettava, dopo aver trasformato la consultazione in una sorta di referendum sulla propria persona. Infatti la sua formazione, il suo partito islamico moderato della Giustizia e dello Sviluppo ( Akp), con il 39 per cento abbondante dei suffragi rimane il primo del Paese, ma è ridimensionato rispetto alle amministrative del 2004 ( 41,7 per cento) e soprattutto rispetto alle politiche del 2007 ( 46,6 per cento). E anche se ha conservato la maggior parte delle città, ha « cominciato a perdere sangue » ( per usare un’espressione dello stesso Erdogan) un po’ ovunque, e particolarmente nel Sud- Est, dove la maggioranza curda non si è fidata delle promesse di nuove concessioni da parte del governo centrale. Non meno significativa appare, sul fronte dell’opposizione ' laica', l’affermazione del Partito repubblicano del popolo ( Chp), fondato dal padre della Turchia moderna, Kemal Atatürk, che con il 21,5 per cento guadagna sia rispetto al 2004 sia al 2007, riconquista nel Sud il centro nevralgico di Antalya, e nel complesso vede rafforzate le sue possibilità di opporsi ai progetti di riforma di Erdogan e di ottenere elezioni anticipate ( quelle politiche sono fissate per il 2011). Ma non sarà facile. Ciò che al momento manca al Chp è un leader dotato di un carisma in grado di competere con quello di Erdogan ( appannato, ma ancora solido) e capace di raccogliere dietro la propria bandiera le schiere del Movimento nazionalista ( Mhp, circa il 17 per cento dei suffragi) e dei gruppi che rappresentano il fondamentalismo islamico, come quello della Felicità ( Saadet, che con il 5,6 per cento delle preferenze ha raddoppiato il risultato del 2007). È anche nel risentimento dei nazionalisti e dei fondamentalisti, che a vario titolo hanno tacciato Erdogan di « tradimento » per le concessioni fatte o promesse – in funzione dell’ingresso nella Ue – ora ai curdi ora alle donne ora, e più in generale, ai sostenitori dei diritti umani che si possono cercare le ragioni dell’ « avvertimento » ( come titolano alcuni giornali) inviato domenica dagli elettori al primo ministro. Ma le ragioni principali stanno probabilmente nell’irritazione crescente con la quale lavoratori ( i disoccupati sono aumentati di circa 800mila nel giro di un anno), imprenditori e mondo della finanza hanno accusato Erdogan di inerzia, e comunque di aver sottovalutato la portata della crisi economica. Sullo sfondo di un quadro sociale carico di tensioni ( per esempio, il voto è stato funestato da scontri e sparatorie che hanno fatto almeno sei morti, cosa che non accadeva da una trentina d’anni), si profilano anche le rischiose e talvolta contraddittorie scelte del governo. Le condizioni poste dall’Unione europea per l’ingresso della Turchia, specialmente in materia di diritti umani, sono state soddisfatte soltanto in parte, mentre nelle questioni regionali Erdogan si è sbilanciato non poco, ad esempio quando, sperando verosimilmente di guadagnarsi i favori dei Paesi arabi produttori di petrolio, si è lasciato andare a invettive contro Israele, arrivando a litigare, a Davos, con il presidente Shimon Peres. Vedremo presto, e probabilmente già nell’incontro che avrà con il presidente statunitense Barack Obama al termine della sua missione europea, se e quanto Erdogan avrà saputo, come ha detto egli stesso, « imparare dalla sconfitta» .