martedì 14 luglio 2009
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Beppe Grillo ha annunciato di essersi iscritto al Partito democratico, allo scopo di diventarne niente meno che segretario, anche se non sembra che la tessera gli sia stata consegnata, perché la richiesta è stata presentata in un luogo diverso da quello della sua residenza. In questo minuscolo episodio, nel quale a una palese e roboante strumentalizzazione politica si contrappone una contestazione anagrafica, si può leggere il problema di fondo del Pd. In quel partito, che pure è un grande partito con la responsabilità principale dell’opposizione che è funzione essenziale della democrazia, non c’è nessuno che abbia l’autorità per dire semplicemente e conclusivamente che per chi insulta metodicamente il presidente della Repubblica, il Parlamento, e, già che c’è, anche il Pontefice, in quel partito non c’è posto per evidenti ragioni politiche. D’altra parte, chi lo facesse, si troverebbe immediatamente immerso in una ragnatela di controversie giurisdizionali e burocratiche, consentite da uno statuto la cui stesura era stata attribuita da Franco Marini a un perfido dottor Stranamore. Lo statuto, naturalmente, non è la causa ma la conseguenza della difficoltà di decisione e di scelta che caratterizza il Pd non da oggi. Se oggi un dileggiatore professionale del Pd può proporsi di diventarne segretario è perché nei suoi confronti non è stata condotta una critica seria quando era ora.L’idea elementare e sbagliata che, in fondo, tutto quel che si agita contro il governo può aiutare l’opposizione, ha impedito al Pd di darsi un carattere pienamente autonomo e riconoscibile, nonostante le opposte proclamazioni di autosufficienza maggioritaria. La difficoltà a far emergere le questioni politiche in un confronto netto e chiaro, d’altra parte, anche su un piano più serio, lascia spazio a chi propone prospettive parziali e quasi monotematiche, come quelle sostanzialmente favorevoli all’eutanasia sostenute dal 'terzo uomo' del Pd, Ignazio Marino. Sembra che si vada verso un partito che non riesce a sciogliere in modo comprensibile e secondo il principio maggioritario le alternative che si pongono su questioni tipicamente politiche, da quella delle riforme istituzionali alla linea di politica economica, mentre rischia di negare la prevalenza della coscienza sulle questioni che rivestono un carattere etico prevalente. Esattamente l’inverso di quel che sarebbe necessario, e che peraltro sta scritto nei dimenticati documenti di fondazione, a cominciare dalla cosiddetta carta dei principi. Non c’è da rallegrarsi, nemmeno da parte della maggioranza, di una deriva confusa e inconcludente per la maggiore forza di opposizione. Una democrazia compiuta si basa sulla competizione tra due classi dirigenti politiche che interpretano in modo alternativo l’interesse nazionale. Se questo carattere viene meno da una parte, è in pericolo anche dall’altra. Il problema è che la qualità del ceto politico del Pd, indebolito dalle sconfitte elettorali, richiede uno scatto, un’assunzione di responsabilità nazionale e civile che gli permetta di distaccarsi con autorevolezza da un fondo paludoso fatto di insinuazioni, di propagandismi estemporanei, di radicalismi strumentali. Questa è la prova vera del congresso, e non è una prova facile.
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