Un sabato davanti a una chiesa, in Lombardia. È stato celebrato un matrimonio, e gli invitati attendono che escano gli sposi. Eccoli: lei bella nell’abito candido, lui con la faccia di ragazzo che stenta a trattenere l’emozione. L’applauso, il riso lanciato come grandine, un’allegria sincera. Ma attorno a quella piccola folla si fermano anche gli sconosciuti di passaggio, e perfino una comitiva di turisti stranieri; e rallentano le auto, davanti al sagrato, e qualcuno suona il clacson, a fare gli auguri. È un solo un attimo, che si allarga tra le nostre strade solitamente indifferenti all’altrui destino. E però le hai viste, quelle facce di passanti che si sono concesse a un sorriso, per un momento: come se quella gioia riguardasse anche loro. Ed è così, infatti. Ogni matrimonio porta con sé l’aura di un nuovo inizio, di una nuova famiglia, di figli che verranno; di un’altra storia che va ad alimentare quella collettiva di un popolo. Non ci si pensa, ma lo si sa istintivamente; e per questo si fermano e sorridono anche gli estranei, quando passano gli sposi. Domenica, alla vigilia dell’apertura del Sinodo sulla famiglia, il Papa ha detto una cosa che ha a che fare con quell’istante, davanti alle nostre chiese. Ha detto: «Paradossalmente anche l’uomo di oggi – che spesso ridicolizza il disegno di Dio – rimane attirato e affascinato da ogni amore autentico, da ogni amore solido, da ogni amore fecondo, da ogni amore fedele e perpetuo». È vero: benché in molti di noi ci sia l’amarezza di chi ha visto, di un matrimonio, il fallimento, o la sofferenza dei figli cresciuti nell’ombra della disillusione; benché sappiamo bene quanto poco tempo occorra ormai per un divorzio, e con quale facilità si crede di poter voltare pagina, nonostante questo ogni ragazzo e ragazza che si innamorino desiderano che quel bene sia per sempre (quei lucchetti incatenati, nelle città, a certe balaustre di ponti, non vogliono forse dire, audacemente: "Per sempre"?). Ma, replica dentro di noi un’anima raziocinante e navigata, queste sono cose di ragazzi. Certo, che a sedici anni si sogna l’amore per sempre. Poi, si cresce. E ci si scontra con la realtà, che falcia i sogni. Non direbbero forse così i reduci da matrimoni falliti, quelli che si vedono consegnare un figlio, avaramente, un sabato ogni due, quelli che cercano con ansia un’altra chance per non restare soli? Tale numericamente è la percentuale dei naufragi, che ragionevole sembrerebbe chi nemmeno si illuda; chi, nel sentire la formula "fedeli nella buona e nella cattiva sorte", scrolli le spalle con educato cinismo. Come fosse, il matrimonio cristiano e indissolubile, una fiaba cui nessuno crede più. Eppure, ha detto il Papa domenica, persiste fra noi un sentimento di attrazione per l’amore perpetuo e fecondo. Per l’amore che non finisce, che non tradisce, che non si rottama. I sogni vani non sono tanto tenaci. È come se, anche dopo decenni che hanno messo in crisi e quasi disfatto la famiglia, ci fosse in noi, ostinata, censurata, ancora una nostalgia; come se, semplicemente, noi fossimo fatti per un bene che dura per sempre. Nell’apertura di un Sinodo che dovrà districarsi fra tanti nodi, la memoria di cui Francesco ha accennato non è per i cristiani un merito da vantare con superiorità - tanti poi di noi naufragano, in questa battaglia, esattamente come chi non ha fede. È invece il riconoscimento leale almeno di ciò che desideriamo davvero, di ciò che si legge in faccia ai nostri figli, quando avvertono lo scricchiolio della famiglia in cui sono nati. Un desiderio che, se affidato solo alle nostre forze umane, facilmente naufraga: in verità occorre come un garante, a fondare e sostenere il bene fra un uomo e una donna. È il segreto di certe anziane coppie sopravvissute a scogli e rapide: l’avere contato su Cristo, come vero fondamento fra sé. Nessun orgoglio dunque, nessun sentirsi migliori è lecito a chi, in questi tempi tellurici, riesce a mantenere unita la sua famiglia, ma gratitudine invece per la misericordia che gli è stata usata. E quando si percepisce questa misericordia su di sé, non ci si sente più in grado di giudicare con durezza e condannare. Si può solo offrire la propria testimonianza – e con i gesti e la faccia, più che con le parole; si può solo condividere quanto di dolore e solitudine si allarga attorno a noi. In fondo è il passaggio da una giustizia astrattamente enunciata a una misericordia che, non dimenticando la verità, si fa prossima. Abbracciando i caduti di una guerra che non solo ferisce, ma addirittura nega che nella nostra natura ci sia, misteriosa, taciuta, una radice ansiosa di un bene che dura per sempre – nella buona e nella cattiva sorte.