Con la ripresa economica post Covid e gli incentivi governativi i cantieri edili sono in pieno fermento, ma stentano a trovare i lavoratori di cui necessitano. Qualche mese fa l’Ance, l’Associazione nazionale dei costruttori edili, ha stimato una carenza di oltre 250mila lavoratori per completare le opere previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Gli immigrati, non da oggi e non solo in Italia, hanno fornito all’industria delle costruzioni un apporto indispensabile per realizzare interventi grandi e piccoli. Nel nostro Paese, grandi opere come le Olimpiadi invernali di Torino ed Expo Milano sono state ultimate in tempo utile anche grazie al loro lavoro: un lavoro, va sempre ricordato, che in edilizia è particolarmente faticoso ed esposto a condizioni climatiche avverse, in testa alla classifica dei rischi infortunistici. Meno evidente è il fatto che in questo settore, oltre a rappresentare una quota ingente della manodopera (235mila persone, pari al 17,6% del totale nel 2019, prima della pandemia), gli immigrati si propongono anche come lavoratori indipendenti e titolari d’impresa. Dopo anni difficili, la ripresa dell’attività edilizia si sta traducendo in un significativo incremento dei titolari di attività nati all’estero: 6.265 operatori in più nel 2020, pari a un +4,5%. Sul totale delle imprese del settore, i titolari nati all’estero ne guidano il 17,4%.
Un fenomeno simile si registra anche in altri ambiti di attività economica, primo fra tutti il commercio al dettaglio, e ancora di più il commercio ambulante. Qui la crescita è stata più contenuta (1.865 unità), ma in controtendenza rispetto al graduale ritiro dei titolari italiani. Una visita ai mercati all’aperto in molte città del Centro-Nord (e non solo) sarebbe un’esperienza istruttiva per farsi un’idea, dare dei volti e magari dei nomi, a quanto le fonti statistiche registrano: oltre la metà dei banchi sono oggi gestiti da commercianti di origine straniera. La piccola borghesia delle attività autonome anche nel nostro Paese non riesce più a riprodursi in maniera sufficiente: i figli studiano e cercano altri sbocchi. Gli orari, le condizioni di lavoro, i guadagni incerti non li attraggono più. Subentrano nuovi titolari, scaturiti da strati sociali più popolari. Oggi sempre più provenienti dall’estero. Grazie a loro resta viva una plurisecolare tradizione delle città italiane, sedi di vivaci mercati all’aperto che rimangono un appuntamento fisso per molti consumatori e semplici curiosi: un luogo di scambio e di socialità.
Anche nelle periferie, dove molte serrande si abbassano (a Milano una delibera comunale consente di trasformare in abitazioni i vecchi negozi), il subentro di commercianti di origine immigrata aiuta a contenere le perdite, a mantenere illuminate le vetrine e più frequentate le strade. Corrieri, ristoratori, pizzaioli, produttori di kebab, impresari delle pulizie, completano il quadro. In Italia, 639mila persone nate all’estero (giugno 2021) sono titolari di un’attività economica, il 10,5% del totale (Dossier immigrazione 2021).
I problemi non mancano. Le attività si affollano in settori in cui gli investimenti sono mediamente bassi, la concorrenza molto dura, gli orari interminabili, i guadagni modesti, le condizioni di lavoro poco attraenti. Come nel lavoro dipendente, gli immigrati trovano spazio là dove gli italiani si ritirano. Il fenomeno s’inserisce tuttavia in un contesto complessivo finalmente incline a un cauto ottimismo.
La ripartenza del Paese esige risorse di vario genere, dagli investimenti pubblici al capitale umano, dalla ricerca scientifica alla capacità innovativa degli imprenditori. Ma nel bisogno di rilancio c’è anche un versante minuto, diffuso, intrecciato con la vita quotidiana delle città. Qui servono nuovi operatori dell’economia di prossimità, intraprendenti, laboriosi, desiderosi di trovare spazio. Le persone immigrate, quando offrono queste qualità, e tanti già lo fanno, possono contribuire a dare al Bel Paese un’iniezione di energia.