Ha ragione Fulvio De Nigris quando, rievocando il caso Englaro, in occasione della Giornata nazionale degli stati vegetativi – istituita il 9 febbraio, nel giorno in cui Eluana è morta – parla di «vite differenti». Chi, come De Nigris, come me e tanti altri, ha vissuto accanto a qualcuno in questa condizione, sa benissimo che non si tratta di «vegetali », persone «quasi morte», vite «senza biografia» e senza importanza, che non vale più la pena di vivere. Insomma, persone che, perdendo la propria autonomia, la capacità di interagire, hanno perso la propria umanità. Eppure era difficile spiegare, allora come oggi, che si tratta di persone in condizione di estrema disabilità, che hanno, a volte, una vita interiore segreta, che noi non percepiamo e non sappiamo decifrare, ma che gli scienziati, con tecniche di indagine mirate, cominciano a scoprire. Quante volte, invece, abbiamo sentito affermare che chi è attaccato a un respiratore, o anche chi semplicemente viene alimentato tramite un sondino, è tenuto in vita dalle macchine «artificialmente »; come se la medicina non fosse esattamente questo, tenere in vita con farmaci, device, protesi, e tutti gli «artifici» possibili, il malato.
Ma in quella affermazione c’è, sottintesa, una valutazione liquidatoria, l’idea che ci siano malati su cui il sistema sanitario non deve sprecare risorse e attenzione. Oggi, con l’imperversare della pandemia, con l’improvvisa scoperta delle mancanze della nostra sanità, fino a ieri ritenuta tra le migliori al mondo, alcuni hanno posto un problema analogo: è giusto insistere a curare una persona molto anziana, che magari soffre di altre patologie, e non destinare da subito risorse, terapie, posti letto e anche tempo, ad altri, più giovani e con più anni di vita davanti? Anche se la questione viene considerata sotto il profilo della allocazione delle risorse, è in realtà lo stesso dilemma etico di cui l’Italia venne investita con il caso Englaro, un dilemma che mette in discussione i valori su cui si fonda una comunità solidale. De Nigris ricorda – e lo ringrazio – l’impegno mio e del ministro Sacconi nell’affrontare il problema delle persone in stato vegetativo, affidate fino ad allora a iniziative episodiche, o al sacrificio personale dei caregiver familiari, spesso senza un aiuto pubblico. Mettemmo in piedi un bel lavoro di squadra, con gli esperti e le associazioni, per arrivare all’accordo Stato-Regioni che disegna un percorso modellato sulle esigenze dei pazienti e delle famiglie.
È stato un passo fondamentale ma non definitivo, e molto ancora si può fare. Non è solo questione di investimento economico, ma di scelte organizzative mirate, di integrazione tra assistenza domiciliare e medicina di territorio; soprattutto, è questione di scelte valoriali, esattamente come è stato ai tempi della battaglia per salvare la vita ad Eluana Englaro. Perché dietro l’idea che l’esistenza di un essere umano in certe condizioni conti poco, e che se non si è autosufficienti e pienamente coscienti si sia candidati naturali all’eutanasia, c’è un’impostazione discriminatoria che mette in crisi l’eguaglianza, la fratellanza, la solidarietà umana: princìpi laici, non patrimonio esclusivo dei cristiani. Quello che si mette in discussione è il concetto di persona, la comune qualità umana, indipendente dalle situazioni esistenziali. Ieri accadeva a Eluana Englaro, che non ha mai dato un consenso informato alla propria morte, decisa da un tribunale, su richiesta del padre, autorizzando la sospensione di acqua e cibo. Oggi rischia di accadere ancora a persone in condizione di fragilità, che potrebbero essere meno tutelate, meno curate di altre. Lo abbiamo detto e scritto tante volte, ma è importante e necessario ripeterlo di nuovo e di nuovo: è sulla protezione di chi non ha voce, di chi non riesce nemmeno a dire le proprie ragioni e far valere i propri diritti che si misura una civiltà; su come trattiamo gli anziani, i disabili, le persone in stato vegetativo, le Eluana Englaro del nostro tempo.