Il vino buono ha bisogno della notte. Delle molte metafore dell’uva e del vino, che fanno parte del lessico famigliare cristiano – e della Bibbia, in primo luogo – questa era rimasta nascosta. L’ha portata alla luce Benedetto XVI, ieri, in un giorno pieno di solennità e di affetti, segnato dal suo sessantesimo anniversario di ordinazione sacerdotale. Il tema dell’omelia è stato intimo e profondo, con parole che hanno fatto vibrare le molte risonanze della parola di Gesù sull’amicizia. Parola affettiva, ma non sentimento leggero. Parola che fissa la chiave della nuova confidenza con Dio, sigillata dal dono della vita, fino al sangue. Parola che scandisce il tempo della storia fra l’uomo e Dio: prima dell’amicizia di Gesù, dopo l’amicizia di Gesù. Fra noi e Dio cambia anche la religione, con questo legame. «Dio stesso è uscito da sé, ha abbandonato la sua gloria, per cercare noi».Il legame si è saldato una volta per tutte, e per sempre. La metafora che lo illumina è viva e generatrice di vita: «Io sono la vite e voi i tralci». Questo legame è destinato a diventare gioiosa nervatura dell’intero corpo del mondo nel quale abitiamo, ci muoviamo e siamo. E linfa vitale, per frutti sempre nuovi. Non siamo ammanettati a Dio: siamo suoi amici, noi.Di questo vino è tempo di ritrovare la fragranza. Niente di melenso. Niente di cosmetico. Un profumo di cosa genuina e viva, niente trucchi. Questo legame con Dio va curato, nutrito e lavorato fino all’ultima goccia. Rossi di pigiatura e di tino dobbiamo essere. E dono e nutrimento e fuoco nelle vene deve diventare: non vapori di esaltazione, sterili, che lo sprecano in niente. La Parola di Dio irriga la terra e non ritorna a Lui senza produrre fatti, dice l’antica profezia (Is 55, 11). L’emozione di questo vino nuovo non deve abitare la terra invano.A questo vino serve la notte. Il lavoro nelle oscurità della terra, il passaggio del fuoco e dell’acqua, la violenza della pigiatura, la pazienza della fermentazione. «Del vino pregiato – è il Papa che parla – è caratteristica non soltanto la dolcezza, ma anche la ricchezza delle sfumature, l’aroma variegato che si è sviluppato nei processi della maturazione e della fermentazione». Non sono incidenti di percorso, fatiche da evitare, vuoti a perdere: sono le condizioni di una generazione riuscita.Amici vinificatori e ristoratori mi spiegano che, in questi ultimi tempi, si sono molto dovuti adattare alla sempre più diffusa ricerca di vinelli facili, sapori ammorbiditi, biologici da laboratorio. E poi, per contrappasso, intrugli per lo choc di mezza sera e biberon per lo sballo di una nottata (il reality di maggior successo: "Domani è un giorno di meno"). Lo dicono con malinconia: hanno perso la soddisfazione di essere gratificati – persino loro – dalle parti nobili del giudizio di gusto, che hanno bisogno – persino esse – di umana sensibilità e finezza di riflessione.Non posso fare a meno di domandarmi se non ci siamo persi qualcosa del genere anche nel trattare il vino di Dio. Se non siamo diventati persino insofferenti dei tempi e della tenuta che sono necessari all’educazione e al lavoro dell’amicizia: che ha la tenacia dei passaggi difficili, armonizza sapori forti, genera sapori intensi che durano nel tempo. Persino capaci di migliorare, invecchiando (inconcepibile, oggi, vero?). Ha ragione il Papa. «Il vino è immagine dell’amore».