Il mondo della globalizzazione non si è unificato, è invece percorso da tante lacerazioni. La Chiesa non si rassegna a questo. Infatti parla di unità del genere umano e la vive nel suo seno. Cerca l’unità dei cristiani, secondo la volontà del Signore. Così si è mosso Benedetto XVI. Uno dei suoi primi colloqui, dopo l’elezione, fu con Kyrill, ora patriarca russo. Nel mondo tradizionalista, sempre nella logica dell’unità, il Papa si è preoccupato dello scisma in atto dalla fine degli anni 80. In questo quadro si colloca «il sommesso gesto di una mano tesa»: togliere le scomuniche ai vescovi lefebvriani. Benedetto XVI vuole facilitare il ritorno all’unità di un emisfero problematico non solo per l’accettazione del Concilio e del magistero di Paolo VI e Giovanni Paolo II, ma per alcune derive settarie. Tra queste l’antisemitismo, tipico di una mentalità cui si rifaceva Lefebvre.Chi conosce un po’ di storia del cristianesimo sa che il recupero all’unità consente di evitare o controllare queste derive, prima che si irrigidiscano con il tempo. Non si tratta di legittimarle, anche perché la cancellazione delle scomuniche non é un decreto di lode per i quattro vescovi. Chi lo aveva annotato in quei giorni, come l’autore di queste righe, si è ritrovato addosso accuse di anticonciliarità o di scarso amore per gli ebrei.Come è stato possibile che questo atto del Papa scatenasse «una discussione di tale veemenza»? Ci sono stati problemi di comunicazione, come egli riconosce nella lettera ai vescovi. Sono pesati condizionamenti reali, come l’egemonia delle logiche mediatiche sui cattolici: bisogna rispondere in fretta, prendere posizione, spesso su notizie parziali di agenzia. Il nostro diventa il tempo dei terribili semplificatori. E poi c’è lo schema della cultura del nemico. Nella massima semplificazione: per affermare l’identità c’è bisogno del nemico. Ma l’identità conciliare della Grande Chiesa è radicata nella vita e nella tradizione. Non vuole un nemico, anzi ama e dialoga con chi le è contrario. Perché non con chi è ostile al Vaticano II?D’altra parte è emerso, in questi giorni, il sospetto (sempre latente) verso papa Ratzinger: al fondo, senza dichiararlo apertamente, sarebbe contro il Concilio. Per affermarlo si dimentica troppo della sua opera di teologo, anche verso gli ebrei. E poi è il Papa che ha voluto il Sinodo sulla Parola di Dio. Ma non importa e si cede all’ultima emozione. Chi ha memoria ricorda che Paolo VI e Giovanni Paolo II sono stati accusati l’uno di tradire il Concilio e l’altro di volere la restaurazione. Oggi questo viene dimenticato; anzi li si esalta come papi del Vaticano II. Il che è vero, perché loro hanno guidato in modo costruttivo la recezione di quel Concilio che ha tanto segnato la nostra stagione ecclesiale.Lo spaesamento di questo tempo ci prende. La lettera di Benedetto XVI, inaspettata, ci interpella. È testo di una Chiesa-comunione. Il tono fraterno è lontano da giochi politici, allusioni curiali, infingimenti. Rivela la fibra del credente e l’umiltà della persona. Dichiara «la priorità che sta al di sopra di tutte» nel suo pontificato: «condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia». Ma questa è la priorità della Chiesa e del Concilio. Nel 1975, Paolo VI scrisse: gli obiettivi del Concilio «si riassumono, in definitiva in uno solo: rendere la Chiesa del XX secolo sempre più idonea ad annunziare il Vangelo all’umanità del XX secolo». Essere idonei è anche cercare l’unità tra i cristiani, afferma il Papa. Aggiunge: tale unità fonda la ricerca della pace nel mondo e l’avvicinamento tra i credenti di diverse religioni. Questo richiede più amore, che si fa pazienza, umiltà. Semplicistico? Semplice e allo stesso tempo complesso. Ma questa è la Chiesa del Vangelo, con cui vogliamo camminare. Insegnava un grande orientale, il patriarca Atenagora: «Se noi sapremo restare grandi, saremo uniti».