Più passano i mesi di questa incerta "primavera politica" del mondo arabo e meno risultano evidenti i vantaggi per Teheran, forse troppo frettolosamente indicata come una grande beneficiaria delle rivolte. Certo, uno dei regimi maggiormente ostili alla repubblica islamica iraniana – quello egiziano di Mubarak – è imploso ed innegabile risulta la perdita di potere e influenza di Washington in tutta la regione. Vantaggi evidenti per l’Iran, tuttavia sminuiti – in queste settimane – da una serie di elementi negativi per le ambizioni geopolitiche del Paese. In Bahrein, le proteste della comunità sciita – che rappresenta la maggioranza della popolazione, ma che è politicamente soggiogata dalla minoranza sunnita – non hanno abbattuto l’invisa dinastia degli al-Khalifa. Anzi, hanno finito con il tradursi in un boomerang strategico, dato che hanno spinto l’Arabia Saudita a rafforzare il proprio sostegno alla monarchia bahrenita, tanto da inviare un proprio contingente militare. E in tutto il Golfo si rafforzano le politiche di repressione delle minoranze sciite e di contenimento del
soft power iraniano: politiche che potranno essere inefficaci nel lungo periodo, ma rivelano l’ostilità fortissima che Teheran raccoglie nella regione. In pratica, sembra di essere tornati ai primi anni della rivoluzione khomeinista, allorché la Repubblica islamica era considerata il pericolo principale dalla quasi totalità degli Stati arabi mediorientali. Colpa dell’avventurismo radicale del presidente Mahmud Ahmadinejad, il quale è riuscito a cancellare completamente le aperture e i successi regionali del suo predecessore, il riformista Mohammad Khatami. Ma la preoccupazione principale dell’Iran è oggi rappresentata dalle difficoltà politiche della Siria, un alleato cardine per le proprie strategie mediorientali. Qui, le proteste popolari scuotono un regime che ha pochissime possibilità di riforme (lo dimostrano le repressioni violente, come quella di ieri): al di là della maschera ufficiale rappresentata dall’ideologia ba’thista, vi è un sistema di potere che fa perno su di una piccola minoranza identitario-religiosa, quella degli alawiti, al potere dal 1963. Dovesse allentare il loro controllo sui gangli del potere politico e militare, essa rischierebbe di venire spazzata via dalla maggioranza sunnita. Una prospettiva che spaventa paradossalmente un po’ tutta la comunità internazionale (Stati Uniti e Israele compresi) data la centralità geostrategica di Damasco, ma che per Teheran rischia di essere catastrofica. Il crollo di Bashar al-Assad porterebbe facilmente al potere forze islamiche radicali sunnite, che godrebbero dell’appoggio dell’Arabia Saudita, privando l’Iran di un alleato cruciale per continuare a sostenere Hezbollah in Libano, così come Hamas nei territori occupati. La Siria è anche la riprova di una costante della politica estera iraniana non sufficientemente compresa in Occidente: nonostante la retorica pan-islamista, che abbonda in tutte le dichiarazioni ufficiali e che è ossessivamente ripetuta da Ahmadinejad, Teheran non guarda mai agli interessi dei Paesi musulmani, ma solo ai propri interessi nazionali. Dietro la maschera della comune appartenenza islamica si cela una politica iper-nazionalista ed estremamente cinica. E non solo con i sunniti. Subito dopo il collasso dell’Unione Sovietica, per citare un esempio, scoppiò una lunga guerra fra l’Armenia cristiana e l’Azerbaijan sciita. Ebbene: la repubblica islamica fu in prima fila a sostenere l’Armenia contro le forze di Baku. Così, i pasdaran che reprimono con brutalità le proteste in patria accusando i partecipanti di andare contro i principi islamici da essi garantiti, non si fanno problemi a sostenere in Siria un governo socialista e secolare che schiaccia ogni movimento islamico radicale. Sotto la vernice ideologica "verde islam", si scorge facilmente la solita realpolitik cui è ormai abituato il sistema internazionale.