Sono passati sessant’anni dallo schianto di Superga, ma la sensazione che il Grande Torino non sia morto è ancora vivissima, palpabile, continua. Quel giorno l’aereo che riportava a casa la squadra da Lisbona si disintegrò sul contrafforte della Basilica, sulla collina. Un urto tremendo, sconcio. L’aereo, compresso oltre ogni immaginazione, ridotto a un mucchio di rottami infuocati. Giocatori, tecnici, accompagnatori, operatori di volo. Morirono tutti, trentuno persone. Il fiore del calcio italiano. Quel 4 maggio pioveva. Il cielo era grigio. Nubi nere si agitavano sulla città. Un tempaccio fuori stagione. Gli aerei di quel tempo, a vederli oggi, mettono i brividi. Ancora non si sa quello che accadde. Forse un malore del pilota. Forse un guasto all’altimetro. Forse, più impietosamente, il destino. Meglio, il Fato. Per gli antichi era il Fato a scomodarsi nei momenti importanti. Per gli eroi esserne carpiti era la quintessenza della morte. Una vita fulgida, ma per questo, passibile di un dazio pesante: la brevità. Breve, come il transito di una meteora nel cielo. Il Grande Torino non fu una stella cadente. Per tutti gli anni Quaranta fece suo, nel modo più rapace possibile, il calcio italiano. Attorno a Valentino Mazzola, il capitano, il trascinatore, si era raggrumato un nucleo di straordinari solisti. L’acerba spontaneità di Bacigalupo, il portiere sorridente, e Rigamonti, il duro centrosostegno, trovava equilibrio nella salda esperienza di Ballarin e Loik. All’arrembante agire di Castigliano e Menti, l’ala imprendibile, faceva da contraltare la pacatezza di Grezar, il geometra. Nelle finezze stilistiche di Ossola e Maroso, l’eleganza più schietta, Gabetto trovava di che esaltarsi per fare ancora meglio. Senza dimenticare i rincalzi. Relegati al ruolo solo perché al Torino, ma titolari sicuri in qualsiasi altra formazione. Ad un tratto il Grande Torino divenne la Nazionale italiana. Dieci in azzurro, tutti in un colpo e vittoriosi, contro l’Ungheria. In campo, uno spettacolo. Legati fra loro da quell’afflato corale che, come disceso dal cielo, vitalizza solo i baciati dalla sorte, i granata scardinarono non solo le tante difese, ma il cuore di tutti. I tifosi del Toro si fecero frotte, legioni. Gli stadi osannanti, colmi, gioiosi. Il Filadelfia, la “culla” delle loro imprese, sempre in festa, bandiere granata al vento delle vittorie. Ma il Fato, disturbato da tanto clamore, recise il filo e tutto finì. Sono passati sessant’anni, l’intera mia vita, ieri. Eppure, la gente, lo stesso non smette di ricordare. E se le fila di chi li vide giocare si fanno sempre più esigue, poco conta. Perché ad un tratto - da sempre - anche in non c’era sboccia il miracolo di un ricordo. È la malia che solo il racconto delle gesta dei grandi sa evocare. È il prodigio che solo il rinnovare del dire e ridire è capace di compiere. È quell’eco misteriosa che sa trasformarsi, per alchemica prassi, da incerto fluido concreta memoria. E così anche i giovani miracolosamente «ricordano». Tanti anni fa il Grande Torino se n’è andato. Nel modo paradossalmente migliore, consumato da un lampo ineffabile. Ricordarlo, puntuali e fedeli, non è lucidare l’argenteria di famiglia, dello sport italiano e torinese, preziosamente inutile. Non è neppure tradirsi incapaci di un taglio al passato, né stare inchiodati alle foto ricordo. È atto di civile impegno, umano e sportivo, di rispetto. Nella ferma convinzione che - come disse qualcuno - , solo poggiando sulle spalle dei grandi che ci hanno preceduti, altre imprese e forse superiori alle loro, potranno essere compiute. Il Grande Torino è morto; il Grande Torino vive. *figlio di Franco Ossola, giocatore del Grande Torino morto a Superga