Due immagini. Due protagonisti. L’uomo, con la sua capacità, e la natura, con la sua forza. Il terremoto giapponese di ieri ci ricorda, proprio attraverso le immagini, questo millenario rapporto. Da un lato i grattacieli che ondeggiano sotto le mazzate del sisma, tremano, scricchiolano, ma reggono l’urto. All’interno cadono scaffali, volano pratiche, si rovesciano i computer, ma muri e soffitti non fanno una piega. E così i giapponesi. Ecco un’altra immagine. Non si scappa disordinatamente. Anzi spesso neanche si scappa. Niente panico. Tutti sanno come comportarsi. Qualcuno ha addirittura pronto il caschetto da mettere in testa. Non si sa mai... C’è abitudine, c’è soprattutto preparazione. I giapponesi sanno di vivere in un Paese altamente sismico e hanno imparato a conviverci. Case solide e comportamenti adeguati. È prevenzione, l’unica arma contro le scosse sismiche, visto che per la previsione siamo ancora molto lontani dal raggiungere risultati seri e concreti. Non è il terremoto che uccide, ma la casa che ci cade addosso, lo abbiamo scritto più volte e anche questa volta è tremendamente vero. Si muore, come è successo a L’Aquila, per scosse 30mila volte inferiori, come energia prodotta, di quelle di ieri in Giappone: 5,9 contro 8.9 di magnitudo. Si muore sotto una casa dello studente non adeguata. Si muore sotto scuole fatte male, come per i 27 bambini di San Giuliano di Puglia. Eppure anche l’Italia è un Paese ad altissima sismicità, ma ce lo si dimentica troppo spesso. Lo si vuole dimenticare, quasi lo si esorcizza, «tanto a noi non toccherà...». Per poi magari, dopo, prendersela con chi non ha avvertito per tempo. Invece di pensare «prima o poi ci toccherà...». E prepararsi di conseguenza. Così si costruisce male, in maniera non antisismica e, soprattutto, non si mette in sicurezza il nostro patrimonio edilizio, spesso risalente a tecniche costruttive certamente non a prova di terremoto, vecchie, in particolare nelle regioni del Sud, proprio quelle maggiormente a rischio.Manca una cultura del terremoto, quella che hanno i giapponesi ma anche i cileni e, infatti, non è un caso che l’altrettanto terribile sisma del 27 febbraio 2010 (8.8 di magnitudo) abbia avuto conseguenze, pur se tragiche, abbastanza contenute. Paesi che prendono molto sul serio il rischio sismico, che si preparano, fin da piccoli. Nelle scuole e poi negli uffici. Prevenzione ed esercitazione. Non allontanerà totalmente la paura ma aiuta ad affrontarla. Ma poi c’è l’altra immagine, quella dell’onda che spazza coste e entroterra. Muraglia d’acqua che nulla può fermare. Non ci riuscirono nei poveri villaggi indonesiani nel 2004, non ci sono riusciti nelle pur preparate città giapponesi. Forse troppo preparate, troppo certe di poter affrontare anche questa emergenza che porta proprio un nome giapponese, tsunami. L’orgoglio umano di fronte alla forza della natura. Le certezze che si sgretolano, prima dei grattacieli. Così probabilmente conteremo migliaia di morti, annegati tra palazzi che hanno retto alle scosse. Ma se fosse accaduto da noi, magari sulle coste calabresi o siciliane dello Stretto di Messina che già nel 1908 furono colpite da un terremoto e da vari tsunami che provocarono più di 90mila morti? Quanti lutti dovremmo contare? Proprio quanto accaduto ieri nel pur preparatissimo Giappone dovrebbe spingerci ulteriormente sulla strada della prevenzione, imparando a convivere col rischio. I sismologi lo dicono da tempo che la più grande opera pubblica sarebbe mettere in sicurezza scuole, case, ospedali e uffici. Soldi spesi bene. Basteranno? Intanto spendiamoli.