Il decennio che i vescovi italiani hanno deciso di dedicare all’emergenza educativa, in dialogo e in alleanza con ogni altra agenzia formativa e culturale del nostro Paese, rischia di passare negli annali come quello in cui un’intera generazione di aspiranti docenti verrà, di fatto, “bruciata”. Un paradosso certo, ma anche il frutto di una politica che ha impostato una politica di spesa per la scuola (tra sane esigenze di razionalizzazione e impietosi tagli lineari) i cui effetti potrebbero rivelarsi in alcuni casi peggiori del male da curare.Tra pochi giorni il ministero della Pubblica Istruzione darà il via libera operativo all’assunzione di 30mila docenti a tempo indeterminato. Un traguardo atteso da oltre 200mila precari, che nella scuola ci stanno, ma che ogni anno a fine giugno salutano i propri studenti senza la certezza di poterli rivedere a settembre. Un problema che ha radici lontane e che ogni ministro di Viale Trastevere si è trovato a dover maneggiare. Ben vengano ovviamente queste nuove assunzioni, ma nella consapevolezza che il dimagrimento del bilancio renderà un simile traguardo sempre più ostico per tanti. Sia per chi nella scuola bene o male già ci sta da insegnante, sia soprattutto per chi aspira a entrarci stando, oggi, dall’altra parte della cattedra.Da anni non si bandiscono concorsi per l’immissione in ruolo e il conseguimento dell’abilitazione (elemento necessario per entrare a pieno titolo come docente), è stata eliminata l’esperienza della Scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario (Ssis), non è ancora partito il nuovo percorso per la formazione dei futuri docenti... E lo stesso ministro Mariastella Gelmini in queste settimane ha più volte riconosciuto l’esistenza di uno scenario nerissimo per gli aspiranti docenti, arrivando quasi a invitare i giovani a non puntare su questa via.Le difficoltà (economiche e burocratiche) sono sotto gli occhi di tutti. Ma altrettanto lo è l’emergenza educativa nella quale ci troviamo. Occorre, perciò, il coraggio di ricalcolare la rotta. Risparmiare è inevitabile, ma lo è anche valutare bene i costi sociali delle scelte che si compiono su una frontiera decisiva per il futuro civile ed economico dell’Italia. Davvero per usare al meglio le risorse conviene ridurre il turn over dei docenti che vanno in pensione? Davvero si pensa di poter aumentare il rapporto docenti–alunni, dimenticando che le classi del 2011 presentano problemi e situazioni che nel passato non esistevano, a cominciare dalla presenza di alunni di lingue e culture d’origine diverse? Davvero chiudere una piccola scuola in un Comune di montagna, con contraccolpi sull’intera vita sociale di quella realtà, non costa di più del risparmio economico realizzato? Precludere l’inserimento di forze giovani e fresche, motivate e desiderose di dare il proprio contributo alla formazione delle future generazioni, potrebbe essere, però, il peggior passo falso.Quante volte il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, e i vescovi italiani hanno invitato a puntare su una sempre più stretta alleanza tra la scuola – tutta la scuola – e la famiglia. Due realtà fondamentali per lo sviluppo di qualsiasi società. E la scuola regge sulle spalle dei docenti e dei dirigenti scolastici. Su uomini e donne che hanno visto in questi ultime decenni diminuire il proprio prestigio sociale, il proprio reddito e persino il proprio ruolo educativo. Negli ultimi due decenni, riforme e controriforme li hanno snervati e sfiniti. E solo la grande passione che hanno dentro ha evitato che si andasse al collasso. Fino a quando si potrà andare avanti così? Alla vigilia di un nuovo anno scolastico se lo domandano i diretti interessati e dovrebbe farlo anche l’intero Paese. In gioco, lo ripetiamo, c’è il futuro comune. In questi giorni le parti sociali hanno sollevato il problema dell’economia italiana in crisi e la necessità di un colpo di reni per invertire la rotta. Ebbene questo colpo di reni deve coinvolgere anche la scuola. Che è tutta egualmente risorsa ed è tutta “pubblica”, statale e non statale paritaria.