martedì 19 aprile 2011
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I pugni sul tavolo europeo di Margaret Thatcher non sono di ieri. «We are asking for our money back», diceva il premier britannico al vertice di Dublino del novembre 1979. La Lady di ferro, partner di prima grandezza e neoletta sull’onda di uno storico riflusso conservatore, sembrava tutt’altro che intenzionata a costruire un’Unione più forte: voleva, anzi, ecco il senso della sua frase, riportare a casa i propri contributi comunitari. La Cee era composta di nove Paesi, aveva appena visto nascere il proprio Parlamento; l’allargamento a Est era forse un’utopia nei cuori degli spiriti più ottimisti. Trent’anni dopo, è accaduto l’impensabile: sono caduti i Muri, le frontiere continentali si sono aperte e in 17 nazioni su 27 circola la moneta unica.Di fronte all’obiettiva crisi odierna dell’Europa si può tentare di dare una lettura meno schiacciata sul presente, resistendo al pessimismo che il momento sembrerebbe ispirare. Helsinki bloccherà il fondo-salva Stati sull’onda di un sussulto nazionalista? La piccola Finlandia metterà in ginocchio l’euro scoprendosi improvvisamente allergica a Bruxelles? Probabilmente no, eppure questo è solo l’ultimo chiodo sulla bara, come dicono con efficace cinismo gli americani.L’Italia minaccia di lasciare la Ue per la mancanza di solidarietà di fronte all’emergenza immigrati, anche se si tratta evidentemente di una boutade comprensibile quanto estemporanea. Sull’intervento in Libia si creano fronti contrapposti, quando servirebbe unità d’intenti ed efficacia di azione. In molti Paesi crescono partiti che fanno esplicita professione di anti-europeismo aggressivo (e non sempre irragionevole).Le motivazioni, tuttavia, sono spesso retoriche e infondate. Una per tutte è indicativa, perché contiene un fondo di verità, sebbene non nella parte che viene enfatizzata. Bruxelles è un covo di burocrati invadenti che vogliono dirci che cosa dobbiamo fare, persino stabilendo la misura dei cetrioli o delle sardine, si dice spesso. L’Unione è anche burocrazia e iper-regolamentazione, certo. Ma davanti a emergenze politiche, a scelte di ampio respiro, manca paradossalmente di strumenti e di potere, in quanto sono ancora i singoli Stati che detengono il pallino delle decisione. Per fortuna, replicheranno i critici. Il punto è che di conseguenza continuano a prevalere gli egoismi o gli interessi nazionali. Monta un clima xenofobo in alcuni Paesi? Allora l’Italia faccia da sola e non pretenda di turbare gli equilibri interni della Francia che va alle presidenziali con Marine Le Pen lancia in resta contro gli stranieri. Intervenire a favore delle economie in difficoltà del Sud del Continente? Un passo ostico per la Germania, dove il cancelliere Merkel sente scricchiolare la sua maggioranza, o per la Finlandia, che vede tramontare i tempi d’oro dei successi tecnologici. Anche l’idea di un’Europa "senz’anima" suona vuota e ripetitiva, sennonché vicende come quelle delle radici cristiane mai ammesse nei Trattati e, più di recente, del Crocifisso prima bandito e poi finalmente "riammesso" sono emblematiche di una scarsa attenzione di un vertice "illuministico" a un sentire diffuso per niente retrogrado.Soluzioni facili non paiono essere sul mercato. Alcuni temi – politica estera, migratoria, energetica –, risulterebbero però suscettibili di un approccio unitario e non miope quando fossero delegati davvero a una Commissione o a un presidente capace di assumere decisioni vincolanti per tutti, e quindi di bilanciare pesi e oneri in una prospettiva comune. Ma per fare questo servono leader coraggiosi, della statura dei padri fondatori. In assenza di figure in grado di sfidare i populismi di corta visione, dovremo rassegnarsi a una Ue debole, facile bersaglio del malcontento e agevole capro espiatorio di fallimenti nazionali. La portata delle sfide – e i colossi asiatici e sudamericani che bussano alle porte – prima o poi faranno capire a tutti che solo un’Europa coesa e attiva ha speranza di prosperare e di contare su scala globale. Prima, forse, si muoverà qualche apripista, rilanciando le due velocità nel processo d’integrazione.
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