domenica 17 maggio 2009
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Quasi 430 milioni di elettori indiani sui 714 milioni aventi diritto al voto, sparsi in 800 mila seggi, hanno scelto. Dicono le cronache che la loro preferenza è andata all’Alleanza progressista unita (almeno 250 seggi parlamentari sui 543 in palio), la coalizione di ha finora sostenuto il governo del premier Manmohan Singh. Che in essa si afferma il Partito del Congresso. E che in questo trionfa Sonia Gandhi, l’esponente della dinastia che qualche anno fa decise di sottrarsi alla vita e agli incarichi pubblici per tessere dietro le quinte le alleanze che hanno portato a questa nuova affermazione.Abbandonarsi a una lettura solo partitica di questo gigantesco pronunciamento popolare sarebbe, però, un errore. La coalizione, il partito e la leadership dei Gandhi (la vera star della campagna elettorale è stato il giovane Rahul Gandhi, figlio di Sonia) sono stati solo confermati, da un certo punto di vista l’unica novità sta nella continuità. Ma in questo voto, quasi per paradosso, ciò che è stato respinto conta ancor più di ciò che è stato promosso. Ecco allora il "no" alla Coalizione nazional democratica (solo 157 seggi) guidata dal Bharatiya Janata Party dei nazionalisti indù (119 seggi). Un "no" sonoro anche per il Terzo Fronte, la coalizione dei partiti comunisti e socialisti, rimasto a 80 seggi avendo sperato di sfondare quota 100. Il che vuol dire un netto rifiuto per l’estremismo induista che ha prodotto tensioni e, come nel caso dello Stato dell’Orissa, crudeli e sanguinose persecuzioni nei confronti dei cristiani, e un’altrettanto chiara ripulsa per l’estremismo di sinistra che ha colpito anche durante il voto, con il sequestro di un treno e dei suoi 700 passeggeri da parte di un gruppo maoista. Appare quindi impeccabile l’analisi di monsignor Stanislaus Fernandes, segretario generale della Conferenza episcopale indiana, che ha parlato di "risultato benvenuto per la laicità del Paese" e del desiderio del popolo indiano di avere "un governo stabile".L’idea di stabilità, se riferita all’India, è parente stretta di quelle di progresso e di affrancamento sociale. Metà della forza lavoro indiana (524 milioni di persone) è ancora impegnata in agricoltura e per questa enorme massa proletaria il Governo negli ultimi anni ha varato imponenti programmi di miglioramento delle infrastrutture e concesso prezzi agevolati per l’energia, le sementi, i fertilizzanti. Il tutto condizionato al boom economico del Paese che dal 1997 a oggi, grazie a un Prodotto interno lordo in crescita media del 7% l’anno, ha consentito una riduzione della povertà del 10%. La crisi finanziaria e industriale mondiale ha proiettato lunghe ombre sui programmi di sviluppo. In più, l’India è oggi circondata da una serie di focolai di crisi che sono, sì, altrui ma rischiano di mettere a rischio la sua crescita di nazione protagonista. A Nord, il Pakistan tenta di inocularle il morbo talibano per interposto terrorismo, le tensioni confinarie con la Cina sono solo sopite e non risolte e il maoismo dal Nepal si infiltra con facilità. A Sud, lo Sri Lanka della battaglia finale con i tamil (il cui braccio armato si è esercitato anche in India) è un altro focolaio di tensioni. Gli elettori indiani hanno certo pensato anche a questo, nel momento decisivo del voto. Il fatto che abbiano respinto le promesse dei diversi avventurismi scegliendo la strada, forse non esaltante ma concreta, della realtà e della conciliazione, è una buona notizia non solo per l’India ma per l’intero continente.
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