mercoledì 30 marzo 2011
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Il più difficile viene adesso. Il «nuovo inizio» che la Conferenza internazionale di Londra ha evocato ieri sera per la Libia, è una somma di buoni propositi più che una vera agenda politica. I raid aerei continueranno sotto l’ombrello della Nato, che da domani prenderà il comando delle operazioni, mentre il processo di transizione democratica ha contorni indefiniti e tempi ancora più incerti. C’è chiarezza solo su quel che assolutamente non si dovrà fare. «La Libia non sarà un nuovo Iraq», aveva assicurato Obama da Washington, nel suo discorso in tv poco prima che si aprisse il vertice, esorcizzando il fantasma di un’altra lunga occupazione militare. In effetti, la guerra in corso è molto diversa da quella irachena del 2003. È una guerra scatenata da Gheddafi contro il suo stesso popolo, colpevole d’aver rialzato la testa dopo 42 anni di feroce dittatura. Una guerra iniziata il 17 febbraio con una repressione sanguinosa che non accennava a finire. Non si poteva rimanere indifferenti. Ne ha preso atto, sia pure in ritardo, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che il 18 marzo ha autorizzato l’intervento in Libia della comunità internazionale al fine di proteggere la popolazione civile. Bisognava reagire in qualche modo. I raid aerei, predisposti in fretta e furia, sono stati il modo giusto? Dubbi e perplessità sono più che comprensibili. Quel che invece è del tutto insopportabile è il neo-pacifismo di tanti intellettuali già noti per il loro aggressivo bellicismo. Coloro che oggi ironizzano sull’interventismo umanitario sono gli stessi che ieri teorizzavano l’esportazione della democrazia con i caccia-bombardieri. Pronti a mettersi l’elmetto là dove vedevano (sbagliando) la minaccia del terrorismo mondiale, cinici isolazionisti di fronte ad un dittatore che massacra la sua gente. Eppure, «ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani... Se non è in grado, allora deve intervenire la comunità internazionale con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite. Sono l’indifferenza e la mancanza d’intervento che recano danno reale». Parole inequivocabili pronunciate da Benedetto XVI alla tribuna dell’Onu il 18 aprile 2008. Il diritto-dovere dell’ingerenza umanitaria va però maneggiato con grande cautela, «esplorando ogni possibile via diplomatica e incoraggiando anche i più flebili segni di dialogo», aggiungeva il Papa. Un concetto che ha riaffermato domenica scorsa nel suo accorato appello a sospendere l’uso delle armi. Occorre al più presto arrivare a un cessate il fuoco, stabile e duraturo, così che la popolazione libica non si senta più minacciata dalla violenza del regime. Come? Difficile immaginare una qualsiasi trattativa con un Gheddafi che «ha perso ogni legittimità», sottolinea il comunicato finale della Conferenza di Londra. Stringere d’assedio il rais fino a sconfiggerlo implica una massiccia offensiva militare che non può essere condotta dall’armata Brancaleone degli insorti, ma dovrebbe essere sostenuta dalla coalizione internazionale. Il che andrebbe molto al di là dei compiti fissati dalla risoluzione dell’Onu. C’è chi, come il ministro Frattini, torna a proporre per Gheddafi la soluzione dell’esilio in qualche Paese africano. Tuttavia, il Consiglio provvisorio libico, l’organismo dirigente degli insorti della Cirenaica, lo vorrebbe processare. Insomma, grande è la confusione sotto il cielo. Ed al contrario di quanto diceva Mao, la situazione non è per niente ottima. C’è il rischio che la Libia finisca come l’Iraq. Non del 2003, bensì del 1991, quando la prima guerra del Golfo si concluse con la spartizione di fatto del Paese, la regione curda a Nord semi-indipendente ed il dittatore sempre al potere a Baghdad. Litigiosi fin dall’inizio, i volenterosi della coalizione armata si ritrovano uniti nel non saper esattamente cosa fare. A Londra l’hanno chiamata unanimità.
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