Con l’arresto di Ratko Mladic – catturato ieri a un centinaio di chilometri da Belgrado dopo quindici anni di latitanza – si chiude idealmente la lunga partita del Tribunale dell’Aja con la Serbia di Slobodan Milosevic, di Radovan Karadzic, di tutte quelle figure di primo e secondo piano su cui gravano pesanti come macigni le accuse di genocidio, di crimini contro l’umanità e di crimini di guerra nell’assedio di Sarajevo, durato 43 mesi e nel massacro di Srebrenica del 1995. L’ossessione per un’impossibile purezza etnica, per una Grande Serbia che la dissoluzione del mosaico multiculturale e multietnico miracolosamente tenuto insieme da Tito non poteva più garantire avevano reso il "Boia di Srebrenica" una via di mezzo fra un mostro e un eroe popolare. E proprio quest’ambiguità, sapientemente alimentata nell’immaginario collettivo serbo grazie anche alla mortificante secessione del Kosovo e all’intervento della Nato su Belgrado nel 1999, aveva consentito a Mladic, soldato di valore e insieme cinico pianificatore di assassinii di massa, una sorta di morbida latitanza, protetto da una impenetrabile falange di fedelissimi e dalla occhiuta benevolenza di un regime – e non soltanto quello di Milosevic, visto che la complicità nei suoi confronti è durata fino a ieri – che si ostinava a proclamarlo introvabile, sebbene passeggiasse impavido per le vie alla moda di Belgrado, si mostrasse al ristorante insieme alla famiglia, assistesse alle partite di calcio della Stella Rossa.Figlio di un partigiano titino ucciso dagli Ustascia, Mladic sublimò nell’agghiacciante utopia di una Serbia «depurata dalla gramigna musulmana» la sua personale visione della politica balcanica, nella quale trovarono posto lo stupro etnico e insieme una contorta caricatura della "soluzione finale" nazista. Solo così si spiega – ma ancor oggi si fa molta fatica a darsene ragione – la brutale eliminazione di ottomila innocenti a Srebenica sotto gli occhi impotenti (impotenti?) dei caschi blu olandesi. A lui e al suo compare, quel delirante psichiatra-poeta di nome Karadzic non meno responsabile di altrettanti massacri e stupri, l’allora inviato speciale dell’Onu Richard Holbrooke fece pervenire la proposta di uscire di scena in cambio dell’impunità all’indomani degli accordi di Dayton nel 1995. È da quel momento che i due svanirono, per lo meno formalmente. Arrestato e processato Milosevic, preso e tradotto all’Aja nel 2006 Karadzic, al serbo-bosniaco Mladic restava poca fortuna da spendere. La Serbia rimaneva insieme ai Balcani il grande buco nero di un’Europa pacificata e allargata a Est e a Sud. La sirena di Bruxelles, assai più suasiva con Belgrado di quanto non lo sia mai stata con Istanbul, continuava a lanciare i suoi richiami. A una condizione però: che proprio lui, il grande ostacolo sul percorso di Belgrado verso l’Unione Europea, l’ultimo dei lupi famelici che avevano insanguinato lo scorcio di fine millennio (a dire il vero ne rimane uno ancora, Goran Hadzic, ex capo politico dei serbi di Croazia) potesse essere preso e messo sotto chiave. «Ora le porte dell’Europa dovranno aprirsi», si congratula il presidente serbo Boris Tadic. Ma è un compiacimento un po’ peloso, il suo. Tutti sanno – per primi gli ultranazionalisti serbi che ora protestano per la sua cattura – che Mladic era la pedina di scambio per un futuro europeo di Belgrado ancora tutto da definire. La giustizia internazionale – non meno dei familiari delle vittime peraltro – aveva bisogno di un’importante affermazione di principio. In questo teatro delle convenienze incrociate a farne le spese è stato dunque l’ormai impresentabile "macellaio di Srebrenica", che negli ultimi mesi si faceva chiamare Milorad Komadic e vivacchiava mesto e anonimo lontano dalla capitale, sicuramente sorvegliato dall’
intelligence serba. Che tuttavia attendeva un cenno dal governo per mettere a segno un’operazione che di sorprendente non ha proprio nulla. Ma così funziona la
Realpolitik, che qualche volta per fortuna prende anche il nome di Giustizia.