C’è una rosa, non c’è un nome per il Colle. O, meglio, un nome secco ci sarebbe se Sergio Mattarella avesse anche solo alzato un sopracciglio. Ma il Presidente non l’ha fatto e, anzi, con maturata convinzione di gran politico e di fine giurista, continua a ripetere che non si deve neanche parlarne.
Sette anni al Quirinale sono tanti e raddoppiarli significherebbe dare un cuore monarchico alla Repubblica. Come dargli torto? E come non essergli grati anche per questa esemplare chiarezza d’idee e proprio ora che non pochi italiani invocano l’elezione diretta del Capo dello Stato e «pieni poteri» al governo eletto con lui, con tanti saluti ai sani equilibri fissati, dopo la notte nera della dittatura, dalla Costituzione più bella del mondo?
Dunque il nome per il Colle non c’è. Eccoci perciò ancora al buio, alle prese con una rosa d’inverno, di quest’inverno italiano gelido e caldo a intermittenza come le intenzioni dei capipartito. E rieccoci tutti coi piedi per terra e il morale sotto i tacchi.
La seconda più larga maggioranza di governo che la storia repubblicana abbia visto, composta da una somma di minoranze, non riesce per ora a esprimere altro che giochi di prestigio (l’indicazione tocca a noi, rivendicano i leader del centrodestra) e assennate, flebili e disattese raccomandazioni (concordiamo un "metodo" decente, ripete il segretario del Pd Enrico Letta). E soprattutto ha lasciato che venisse trascinato nella mischia dei veti e semi-veti incrociati il premier Mario Draghi, guida e punto di equilibrio di un altrimenti impossibile centrosinistradestra.
Pessima scelta, come anche da queste colonne proviamo ad avvertire da tempo. Draghi non merita queste leggerezze e nessuno, tra chi lo sostiene e pensa di "usarlo", dovrebbe sottovalutare la pesantezza del fardello di cui proprio Mattarella l’ha caricato e la sua libertà intellettuale. O lo si candida all’unanimità, sapendo già quel che fare per dare stabilità al governo dei duri mesi (anche pre-elettorali) che ci stanno davanti, o è meglio star zitti.
C’è una rosa, insomma, e non c’è un nome per il Colle. E ieri un petalo e mezzo della rosa s’è staccato. Via quello col nome di Silvio Berlusconi (e non è una sorpresa, ma un sollievo anche per i suoi alleati). E via, appunto, un bel pezzo del petalo con su scritto Draghi: Cinquestelle (primo gruppo parlamentare) e Forza Italia (quarto gruppo), che sino a un anno fa erano agli antipodi, han detto quasi all’unisono che il suo posto è e resta a Palazzo Chigi.
Quando cominciano a cadere i petali, la scelta diventa più facile. Ma le rose non sono margherite e alla fine possono restare anche solo le spine. In quel caso, volenti o nolenti, volente o nolente l’interessato, si tornerebbe a bussare alla porta di Sergio Mattarella. Meglio non forzarlo, meglio non deluderci.