«In verità siamo tutti in attesa». Così dice la voce narrante di un racconto di Cesare Pavese ("Piscina feriale"), che amo come si amano i testi che non siamo noi a leggere, ma che leggono noi. C’è un gruppo di persone che passano il tempo ai bordi di una bella piscina color verdemare, inebriata di luce: chi si tuffa, chi prende il sole. Non importa chi sia, tutti sono "in attesa" di qualcosa che sconvolga o dia senso a quella quiete, a quella bellezza, a quella compagnia che nasconde la solitudine: «Ciascuno di noi pensa che se la piscina fosse deserta, non reggerebbe a starsene solo, sotto il cielo».Nessuno può sfuggire in questo racconto a ciò che hanno di più proprio uomini e donne attorno o dentro alla piscina verdemare della vita: «Non si sfugge nemmeno nell’acqua alla solitudine e all’attesa». Ecco cosa siamo: un miscuglio di solitudine e attesa. Cerchiamo di lenire la solitudine con la compagnia degli uomini. Ma l’attesa? Niente e nessuno può lenirla, neanche la bella piscina dei nostri sogni e progetti: non basta, non basta mai. Inoltre proprio quegli uomini che ci fanno compagnia, nello scambio di parole e gesti, riaccendono in noi l’attesa quasi per contrasto: «La compagnia che ci facciamo serve a distrarci dalla varia attesa». Chi potrà mai lenire questa ferita del destino che non si rimargina mai?«Che cosa deve dunque accadere?», si chiede la voce narrante verso la fine. Tutti aspettiamo nelle nostre vite, tutti attendiamo che qualcosa accada, qualcosa di nuovo, di definitivo, di risolutivo, che riempia, soddisfi, disseti la nostra attesa. Nessuno ci ha promesso niente eppure siamo sempre lì ad aspettare qualcosa che ci salvi; e per quanto le cose belle di questo mondo possano riempire per un po’ il nostro orizzonte visivo e il nostro cuore, poi inevitabilmente, la vita ci delude. Ed è bene che ci deluda, e ci delude perché ciò che abbiamo raggiunto non è ciò che attendevamo, anche se ci eravamo illusi fosse così. La vita ci delude, perché attendiamo altro, ciò che aspettavamo non era la nostra bella piscina verdemare. Allora ci ritroviamo a fare i conti con una solitudine rinnovata e una rinnovata attesa, ora più forte: una nostalgia continua di qualcosa di nuovo e definitivo, raggiunto il quale non attendere più nulla, non avere più sete. Una nostalgia paradossale, volta al futuro, non al passato. Volta al per sempre, non ai ricordi: neanche quelli bastano mai.L’arte tutta, dice George Steiner, ebreo agnostico, è nella condizione del sabato santo. Sospesa tra la sofferenza e la solitudine del venerdì e la speranza di liberazione, di rinascita della domenica, attende anche lei il riscatto definitivo dalle ombre. L’arte è in attesa, è l’attesa, per questo il cuore la ama e la crea, perché è come lei: attende ciò che non delude, lo cerca. Così è il sabato santo, il giorno che amo di più, perché è il giorno che assomiglia di più alla vita e agli uomini: giorno di solitudine e attesa. Il silenzio del sepolcro invade tutto e rischia di tradire ogni speranza nata attorno a quell’uomo che diceva di essere il figlio di Dio. Ma persino Lui ha deluso. Ha fallito. «Ma siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda». Così finisce il racconto di Pavese. L’attesa è dentro di noi, niente potrà strapparla via. Potremo forse ignorarla, ma non sopprimerla, restiamo inquieti: l’unica cosa che vogliamo sapere è se quell’uomo è risorto e quella resurrezione c’entra con me ora, in questo istante in cui scrivo. Questa è l’unica cosa che attendiamo, se quell’uomo risorge e c’entra con me, ora, l’attesa è finita. Per questo il sabato è il giorno della donna. Di chi sa attendere la vita nove mesi nel suo grembo: è «in dolce attesa» si dice di una donna incinta. Il sabato è il giorno in cui Lei sola attende, solo lei già sa che suo Figlio non ha fallito e può modulare, col cuore spezzato dai dolori di parto del venerdì, il canto perenne della domenica: Amore mio, amore mio, eternità!