Leggendo le cifre dell’ultima relazione del Ministero della Salute al Parlamento sulla legge sull’aborto – obiettivamente impressionanti, perché mostrano un aumento esponenziale dell’obiezione di coscienza medica e paramedica contro questa pratica – alcuni esponenti sindacali sono tornati a chiedere misure per «la piena attuazione» della legge 194, cioè in buona sostanza misure di incentivi economici e di carriera per i medici abortisti, senza avvedersi che chiedere la piena attuazione di quella legge implica chiedere che non solo alcune, ma tutte le sue norme vengano correttamente applicate, a partire da quella dell’articolo 1, che sostiene che la Repubblica «difende la vita umana fin dal suo inizio» e comporta quindi che in Italia l’aborto volontario non sia «libero», ma purtroppo lecito in alcune precise circostanze, puntualmente descritte e regolate dalla legge stessa, restando invece illecito e punibile in tutti gli altri casi. E poiché nella legge è garantito a medici e paramedici il potersi dichiarare obiettori, anche quando la richiesta di aborto sia formalmente valida, ne segue che è anche sotto questo profilo che la legge deve trovare «piena attuazione», perché ogni forma di discriminazione nei confronti di chi si proclami obiettore, e ogni forma di privilegio concesso a chi obiettore non sia, non possono che avere la valenza di un indebito, se non subdolo, tentativo di manipolazione della coscienza morale e deontologica dei medici obiettori, in palese contraddizione col rispetto che la stessa legge 194 mostra di avere nei loro confronti.Quello però che è davvero sconfortante è il dover prendere atto che i dati forniti dal Ministero della Salute invece di attivare nuove, serie, oneste riflessioni bioetiche sull’aborto vengano da alcuni utilizzati solo come occasione per riproporre posizioni ideologico-libertarie pro-abortiste, vecchie oramai di decenni. Ora, i numeri parlano chiaro: nel 2005 faceva obiezione all’aborto quasi il 59% dei ginecologi; nel 2008 si è arrivati al 71%. In alcune regioni, come nel Veneto e nel Lazio, la percentuale degli obiettori è arrivata a toccare negli ultimi anni l’80%. La legge sull’aborto è in vigore in Italia da più di trent’anni, eppure la stragrande maggioranza proprio di quei medici che dovrebbero essere chiamati ad applicarla si rifiuta di farlo. La ragione è evidente: quella dell’aborto è una pratica terribile, quali ne siano le ragioni, perché è finalizzata a uccidere una vita umana innocente e nessuno, più dei medici e in particolare dei ginecologi, è consapevole di questa verità. Di qui la decisione di così tanti tra loro di dichiararsi obiettori, una decisione che, significativamente, spesso matura con gli anni e che è condivisa da laici e cattolici. Nessun’altra spiegazione, meglio di questa, può essere addotta per spiegare i dati forniti dal Ministero, che vanno presi sul serio e altrettanto seriamente utilizzati.Come utilizzarli, però, in concreto e nel modo migliore? Avanzo un’ipotesi. Stanno maturando i tempi perché abortisti e anti-abortisti (per usare formule stereotipate, ma immediatamente comprensibili) ricorrano a un processo di «apprendimento complementare» (secondo la formula proposta dal filosofo tedesco Jürgen Habermas nel suo noto dibattito con l’allora cardinal Ratzinger): un processo legittimato dal fatto che sia gli uni che gli altri valutano l’esperienza abortiva come una ferita, che il più delle volte si trasforma in una piaga che non è possibile risanare. Nei tanti anni che sono passati da quando è stata approvata in Italia la legge sull’aborto, quasi tutti gli anti-abortisti e i movimenti in cui essi militano sono giunti a convincersi dell’impossibilità di fronteggiare il fenomeno aborto, in una società secolarizzata, con una mera legislazione repressiva. Si è trattato di un «apprendimento» non facile, che ha consentito però il nascere di nuove e diverse forme di impegno per l’aiuto alla vita, per la difesa della famiglia, per l’educazione dei giovani a una sessualità responsabile. Coloro che si sono battuti per la legalizzazione dell’aborto dovrebbero a loro volta mettere a frutto l’esperienza di questi anni e arrivare a capire, prendendo sul serio l’impegno degli anti-abortisti, che l’aborto non è mai da pensare come un «diritto» e meno che mai come un «diritto fondamentale» e che, di conseguenza, non è combattendo l’obiezione di coscienza che si aiutano le donne tentate dal desiderio di ricorrere all’interruzione della gravidanza, ma attivando forme di sostegno umano, psicologico, sociale (e – perché no? – morale e spirituale). In questo senso gli abortisti hanno ancora molto da «apprendere». Nessuno può essere così ingenuo da pensare che sull’aborto si possa giungere a valutazioni morali condivise; ma che per quel che concerne la lotta contro l’aborto ci si possa muovere nello stesso senso, questo sì che è possibile – con un pizzico di ottimismo – pensarlo.