domenica 12 settembre 2010
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Ci si potrebbe chiedere perché. Perché una catastrofe umanitaria, a detta dell’Onu «più grave dello tsumani», con 21 milioni di sfollati e 10 milioni di senzatetto, un quinto del Pakistan sepolto dal fango, raccolti distrutti, a un mese di distanza raggiunga l’Occidente come una debole eco. Perché gli allarmi delle organizzazioni di soccorso, che hanno raccolto sì e no un quarto degli aiuti necessari, non faccia breccia nei nostri notiziari. Eppure anche solo i numeri, dal Pakistan, sono terribili: metà degli alluvionati sono bambini e, di questi, quasi tre milioni hanno meno di cinque anni. Molti non hanno più una casa, e neanche tre su dieci hanno acqua potabile da bere. Questo significa epidemie. Tuttavia, l’attenzione del mondo non si accende.Forse perché quello del Pakistan è uno tsunami lento, non vistoso come un’onda di maremoto, e non colpisce l’immaginazione? O forse perché, istintivamente, associamo al nome del Pakistan quello del terrorismo islamico, della regione che incuba i taleban e li spinge verso l’Afghanistan e oltre, contro l’Occidente?È vero che, nelle cronache filtrate da laggiù, ce ne sono di raggelanti. Tre volontari cristiani uccisi nello Swat, proprio perché la popolazione non guardasse agli stranieri come a benefattori; e nel Punjab, come ha riferito l’agenzia Fides, le acque di piena dirottate sui villaggi cristiani; e discriminazioni nella distribuzione degli aiuti ai danni di cristiani e indù. Nell’inferno del fango, dunque, galleggia ancora l’odio degli integralisti. È allora il sentore di questo odio, sia pure vivo in una minoranza di estremisti, che raffredda la generosità?A volte una foto ci riscuote. Come l’altro giorno, quando l’immagine di una nidiata di bambini in un campo profughi è uscita sui giornali del mondo intero. Un bambino di forse neanche un anno succhiava avidamente un biberon vuoto; mentre le mosche – mosche grasse, di quelle che pullulano nelle paludi malariche e fra i cadaveri – gli coprivano la faccia. Mosche padrone, come se gli uomini, laggiù, fossero già solo corpi inerti.L’abbiamo vista tutti quella foto. Aspramente, ineludibilmente l’immagine – quanto più potente delle parole – ci ha ripetuto che più di dieci milioni di alluvionati sono bambini; che molti di loro, senza soccorsi, moriranno presto. Ci ha dato, quella foto, il modo di immaginare come si sente una madre che ha solo, da dare ai figli, un biberon vuoto. Allora, qualcuno di noi ha voltato pagina in fretta; qualcun altro si è bloccato a guardare, e poi magari leggendo proprio i numeri immensi di senzatetto e di morti di fame a sua volta ha girato pagina, impotente. (Perfino i numeri da piaga biblica di questa tragedia ci schiacciano; quasi fosse troppo grande, per poter fare).Eppure c’è chi fa. La Caritas internazionale e quella italiana e altre Ong sono in Pakistan, e hanno bisogno di mezzi per raggiungere villaggi isolati, per vaccinare lattanti, per portare acqua potabile. Anche se magari fra la folla di affamati qualcuno, mentre scodellano il cibo, li spia ostile. Comunque, la Caritas e gli altri ci sono. Qualcosa di simile abbiamo visto dopo lo tsunami a Banda Aceh, nell’Indonesia più fondamentalista. C’era chi, pur di non accettare l’aiuto degli stranieri, si lasciava morire di cancrena. E tuttavia si vedevano i reparti dell’esercito canadese montare enormi depuratori per l’acqua, e l’unico missionario cattolico della zona che sfamava ragazzini; e ambulanze di Paesi occidentali che raccoglievano feriti, la croce rossa campeggiante sul grigioverde e la polvere. Stavi a guardare, in quel deserto di morte, e una commozione ti prendeva: dall’altra parte del mondo, fra uomini sconosciuti, che urto al cuore quella croce su un furgone, o al collo di una suora. Nel nome di quella croce, dentro una storia in quella croce cresciuta. Nel nome della croce, per cui in ogni malato, o abbandonato, o miserabile, un cristiano riconosce Cristo. Ovunque, e perfino dove i cristiani sono per alcuni i nemici. Magari addirittura inconsapevolmente: magari non più credenti quei soldati canadesi, ma eredi di un antico respiro cristiano.Andare anche laggiù, sfamare e salvare i figli anche là, così lontano. Il cristianesimo, da duemila anni, è questo. È questo che dobbiamo continuare.
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