Quel gesto che la notte di Natale ha fatto tremare, risvegliando la memoria di un’altra lontana indimenticata aggressione, si è sciolto in fretta in un sospiro di sollievo: mentre ai medici una ragazza psicolabile balbettava che voleva solo «salutare il Papa», Benedetto XVI si era già rialzato e, tranquillo, aveva celebrato la Messa. Mentre le sequenze dell’accaduto arrivavano negli angoli più remoti del pianeta, l’onda di angoscia aveva già lasciato San Pietro.Una donna fragile nella ossessiva idea di abbracciare il Papa ha valicato, insieme alle transenne, quel buon senso per cui tanti, che pure vorrebbero sfiorare il Papa, si limitano a protendere le mani al suo passaggio. Forse la sovrana calma con cui Benedetto XVI, rialzatosi, ha proseguito verso l’altare indica anche che istintivamente ha percepito la natura di quel gesto, sconsiderato ma non minaccioso.Chiunque abbia provato a essere in mezzo alla folla mentre passa un pontefice sa quanta è la pressione, e la spinta di quelli che vorrebbero farsi più avanti, nel desiderio di raccogliere una carezza. Nell’istintivo bisogno degli uomini di toccare colui che rappresenta la propria speranza. Accade ai vicari di Cristo qualcosa di ciò che accadeva duemila anni fa in Palestina: una gran folla supplicante che segue, stringe, incalza. Un Papa questo lo sa e, come Benedetto, non si sottrae all’assedio. Anzi, per quanto può stringe mani, e accarezza bambini. (E quei bambini non dimenticano. Quanti romani, ai funerali di Giovanni Paolo II, raccontavano: un giorno, quand’ero piccolo, mi ha fatto una carezza). E dunque il Papa, mentre i servizi di sicurezza impazzivano, tranquillamente ha ripreso a incedere verso l’altare. Ha celebrato, ha pronunciato l’omelia, come se niente di così strano fosse poi successo. E a chi magari, in basilica o davanti alla tv, attendeva un cenno sull’accaduto, ha parlato di altro. Di Betlemme, e della Parola – ha detto – «che a Betlemme è accaduta». Del caso straordinario di una Parola che è diventata un bambino, così che anche i pastori analfabeti potevano vederla e amarla. (Mentre i Magi, che erano degli intellettuali, hanno dovuto camminare tanto, per arrivare a vedere). Alla folla di fedeli ancora scossa da quel tumulto Benedetto XVI ha parlato dunque di tutt’altro: di segni. Della necessità di «sviluppare una sensibilità per Dio; per i segnali silenziosi con cui egli vuole guidarci; per i molteplici indizi della sua presenza». In un tempo, ha aggiunto, in cui la mentalità e le esperienze tendono a ridurre questa sensibilità, a renderci «privi di orecchio musicale» per Dio.Stare attenti, vegliare per riconoscere i segni. Più difficile certo nel nostro rumore quotidiano che in una cultura contadina dove ogni germoglio, o l’onda d’oro del grano maturo, era implicito segno di un patto fra creature e Creatore. Difficile per noi, invece, sommersi da voci, messaggi, bombardati da immagini, scorgere Dio: nella faccia dell’altro, nelle semplici cose quotidiane, e, vistosamente, in ciò che è bello, e che per la sua bellezza ci commuove. Che è poi la dinamica di quella notte in Palestina. I pastori non accorsero per un comando, o per essere buoni, o per una sperata convenienza. Andarono in fretta, tesi dietro a una luce splendente; dentro la quale riconobbero, come segno, un bambino. Umile segno, ha detto il Papa. Un segno che ha bisogno dell’attenzione del cuore per essere visto. Come un’impronta sul terreno. Chi l’ha lasciata? La risposta è nella libertà degli uomini. (Perché è possibile, nelle stesse identiche tracce, non vedere niente). E dunque in una notte di Natale in cui tutti si era rimasti attoniti a guardare quel salto, quella caduta, quella mischia – nel tuffo al cuore della memoria, che andava a un giorno lontano – tranquillamente il Papa ha voluto spostare il nostro sguardo da quel fatto eclatante, che tutte le tv ormai rimandavano e rimoltiplicavano. Ha indicato i sommessi, minuti segni con cui nella quotidianità Dio si dice, a chi voglia vederlo. Nella antica certezza che «Unum omnia loquuntur», come si legge nella Imitazione di Cristo. Tutte le cose gridano, infine, una cosa sola.