La tragedia che ha colpito in questi mesi il Corno d’Africa, dove oltre 12 milioni di persone soffrono d’inedia e pandemie, è una forte provocazione su scala planetaria per tutti i governi, che va al di là delle condizioni delle loro pubbliche finanze. Ecco perché anche i Paesi membri dell’Unione Africana (Ua) dovrebbero provare a mettersi in discussione, considerando che l’emergenza umanitaria riguarda una delle regioni più strategiche del loro stesso continente. Intendiamoci, sarebbe fuorviante pretendere d’individuare dei capri espiatori, innescando il consueto scaricabarile tra questa e quella fazione. Il fenomeno è certamente complesso, per certi versi addirittura scontato da quelle parti, perché determinato dall’interazione di varie concause: dalla povertà endemica alla siccità, per non parlare dell’accesa conflittualità che, come nel caso della Somalia, impedisce ogni forma di sviluppo e pacifica convivenza. Essendo dunque le responsabilità condivise tra i molti attori presenti nello scacchiere, anche l’Africa deve fare la sua parte, assumendosi l’onere che le compete. Sta di fatto che il 25 agosto scorso i governi africani sono timidamente usciti dal letargo. In un vertice svoltosi ad Addis Abeba, in Etiopia – peraltro preceduto da rinvii e polemiche a non finire – i leader africani si sono mobilitati per raccogliere circa 352 milioni di dollari in denaro e altri 28 milioni in natura, dando così una parziale risposta al lamento di chi non ha neanche più la forza per comunicare. Sul totale, la Banca Africana per lo sviluppo fornirà 300 milioni di dollari da qui al 2015 per progetti di medio e lungo termine. A questo proposito, il presidente della Commissione dell’Unione africana, Jean Ping, si è detto soddisfatto, anche se ha fatto intendere che si tratta della prima tappa, per così dire, di un cammino solidale che abbraccia l’intero continente. Le voci critiche, come d’altronde era prevedibile, non sono mancate. Alcune organizzazioni umanitarie speravano in una più ampia partecipazione dei leader africani al summit. Su 54 Paesi africani, più della metà non hanno ancora versato uno spicciolo. Ed è scandaloso, considerando che parliamo in alcuni casi di regimi che hanno speso una barca di soldi per mantenere saldamente il potere nei loro rispettivi Paesi. I donatori più generosi sono stati l’Algeria con 10 milioni di dollari, e l’Egitto con 5. Deludente invece il contributo del Sudafrica che, pur producendo un terzo del Prodotto interno lordo africano, ha deciso di versare solo un milione. Insomma, quando si tratta di sganciare quattrini, l’egoismo è sempre lo stesso un po’ a tutte le latitudini. E per quanto cinico possa sembrare questo ragionamento, forse mai come oggi sarebbe auspicabile che i leader africani facessero tesoro di quell’ammonizione pronunciata dai Padri sinodali un paio d’anni fa e contenuta nel messaggio finale del Secondo Sinodo africano – «Africa, alzati e cammina!» –, senza abbandonarsi all’inerzia o alla disperazione. Un concetto chiarito molto bene in quella stessa circostanza da monsignor John Olorunfemi Onaiyekan, arcivescovo di Abuja in Nigeria: «
Charity begins at home», «la carità comincia in casa propria». In questa prospettiva, come si legge nel messaggio sinodale, «l’Africa ha bisogno di politici santi che combattano la corruzione e lavorino al bene comune. Coloro che non sono formati alla fede, si convertano o abbandonino la scena pubblica per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica».