Ivonne Escobar, Quito (Ecuador)
La sua testimonianza, gentile signora, è preziosa. La tesa e confusa situazione in Ecuador, nazione in cui lei vive e lavora, è oggetto anche oggi sulle pagine di Avvenire di cronache attente e puntuali. Ma la breve riflessione che ci invia sottolinea un aspetto fondamentale e mai abbastanza in primo piano in vicende come quella che si sta svolgendo nel Paese sudamericano (ma anche in altre vicende assai meno concitate e drammatiche...). Lo scontro tra una verità ufficiale «a reti unificate» e una realtà che diventa difficilmente leggibile e precipita nell’ambiguità. Lei che vive a Quito non riesce a sapere che cosa stia effettivamente accadendo nella capitale ecuadoriana: e cioè se sia il presidente in carica a essere stato «assediato» e ad aver rischiato un «golpe», o piuttosto sia la democrazia a subire un assedio e a rischiare grosso sia il Parlamento e chi sta (o si stava spostando) all’opposizione dei progetti «rivoluzionari» del presidente Correa. Io so che i fatti sono tutt’altro che limpidi e che la sua acuta preoccupazione trova eco forte e pressante nelle parole della Chiesa locale. Ieri, i vescovi locali non si sono limitati a esecrare ogni violenza e sopraffazione e a invocare legalità e dialogo, ma hanno sottolineato l’«importanza della libertà di stampa e di espressione» e hanno chiesto che sia garantita in «modo completo». Quando un leader o un gruppo al potere si proclama sotto attacco e cancella quelle libertà il segno è eloquente, e sempre terribile.
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