Annibale Bertollo
Il nostro lettore ha colto certamente uno dei problemi che dall’inizio dell’era industriale ha caratterizzato il nostro Paese: una certa commistione di interessi tra impresa privata e politica, tra sviluppo complessivo del Paese e agevolazioni a singole aziende. Gli esempi storici non mancano e la Fiat, come molte altre grandi aziende, è stata al centro di questi processi: ha ricevuto diverse agevolazioni ma, piaccia o non piaccia, ha contribuito non poco anche a favorire il progresso economico e sociale del Paese. Nel caso specifico della Fiat e del futuro dello stabilimento di Termini Imerese, la rimando alle pagine e ai commenti che abbiamo pubblicato. Sul piano generale, per natura rifuggo dalle semplificazioni e dalle dietrologie spicce. Non credo, insomma, che – oggi – la politica prenda alcune decisioni per poi «far assumere i suoi tirapiedi». Così come non credo che ogni agevolazione da parte dello Stato o degli enti pubblici sia un «regalo» fatto ai privati perché possano privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite. Agevolare le imprese (tutte possibilmente, non solo le grandi, ovvio) per favorire la nascita di nuove attività e nuovi posti di lavoro, promuovere lo sviluppo di un dato territorio, rientra tra le scelte possibili, direi auspicabili, che uno Stato può compiere. È quella che si chiama «politica industriale», rispetto alla quale dovremmo interrogarci non se sia lecita o meno in un sistema liberale, piuttosto quanto sia effettivamente efficace ogni singola scelta, quale bilancio costi-benefici comporti, non solo sul piano strettamente economico, ma anche sociale, rispetto a quella visione di bene comune che dovrebbe rappresentare la stella polare dell’agire politico. In questo senso non mi convincono neppure quei teorici del liberismo che tendono a ridurre la «responsabilità sociale» di chi fa impresa al mero sviluppo di «innovazione e competitività». Se così fosse; se tutto fosse così semplice, dovremmo prendere per buona qualsiasi innovazione di processo industriale – magari altamente inquinante – o un qualsiasi miglioramento della competitività dell’azienda sul mercato, basato magari sulla compressione dei costi relativi alla sicurezza sul lavoro o più semplicemente sulla progressiva riduzione dei salari dei dipendenti. Anche per me è insomma inconcepibile che l’attività di un imprenditore sia del tutto sganciata dai destini della comunità, sia interna sia esterna all’azienda, in cui opera. Un impianto teorico di questo tipo sconta un deficit iniziale: quello di non partire dalla verità dell’uomo e dalla sua centralità anche nel processo economico. Riportare l’economia a fare i conti anzitutto con una corretta antropologia è invece il perno centrale dell’enciclica "Caritas in veritate". Un contributo forte alla riflessione anche per il mondo laico e liberale.
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