In questi anni abbiamo assistito a molti scandali finanziari. In Italia non c’è una banca che sia fallita e che abbia avuto bisogno di ricapitalizzazione da parte dello Stato, mentre in America e nel resto d’Europa gli interventi di nazionalizzazione sono stati innumerevoli, così come quelli pubblici a fondo perduto; l’Italia delle banche invece ha fatto da sola. Gli scandali sono stati soprattutto industriali. Le inchieste in Europa riguardano casi di manomissioni di indici, come Libor e Euribor, e di cambi. Fra le banche inquisite a livello europeo, non c’è nessuna italiana.
Qui siamo abituati a essere i primi accusatori di noi stessi, anche quando non possiamo imputarci colpe. Per anni, prima della crisi, ci siamo sentiti accusare di essere troppo prudenti. Quando sono cominciate a saltare le banche anglo-americane abbiamo capito che avevamo ragione noi; abbiamo avuto la prova che un eccesso di rischi con una eccessiva limitatezza di capitale è un modello non sostenibile. Lo dico non da oggi: più etica, perché l’Italia vive un eccesso di trasandatezza morale. Taluni ritengono di poter operare delle distinzioni fra le leggi, quelle che possono essere violate e quelle che non possono essere violate. Ogni norma che comporta una sanzione deve essere rispettata. Più etica, quindi, in tutte le azioni.
L’interrogativo su cui vorrei cimentarmi è: quale etica? I codici etici sono stati introdotti negli ultimi anni e sono un passo avanti, ma la matrice dell’approccio etico ha bisogno di approfondimento. Giuseppe Mazzini scriveva che il fatto economico, se sottratto all’influenza direttrice della morale, se disgiunto dai principi e abbandonato alle teoriche dell’individualismo, porterebbe ad una guerra fra uomini. Il messaggio rimanda al pensiero di Minghetti: l’etica deve prevalere anche sul diritto. Questo significa che, anche quando un’operazione è giuridicamente lecita, se contrasta con l’etica, non deve essere conclusa.
Abbiamo vissuto il ’900 con la parvenza di una conflittualità fra etica laica ed etica cattolica e Dottrina sociale della Chiesa. E dal 1993 vi è stata la definitiva trasformazione delle banche in imprese. Dal Concilio Vaticano II in poi la crescita nell’analisi dei fattori economici e dell’etica in economia ha prodotto delle elaborazioni di particolare spessore, trasfuse poi in diverse Encicliche papali e nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa. Nel Compendio trovo che il rapporto fra morale e economia è necessario e non comporta una separazione fra i due ambiti ma una reciprocità importante.
Questa visione non mi sembra molto lontana da quella di Mazzini e di Minghetti. Comune è l’idea che la dimensione morale dell’economia consente di cogliere l’efficienza economica e la promozione di uno sviluppo solidale dell’umanità. L’economia è vista come luogo di creazione di ricchezza, come mezzo, per un incremento di sviluppo, in cui l’elemento qualitativo supera quello quantitativo. Tutto ciò che è moralmente corretto, se è finalizzato allo sviluppo globale e solidale, è di nuovo elemento di convergenza tra Mazzini, Minghetti e la dottrina sociale della Chiesa; comune risulta anche la visione secondo cui ciò si può realizzare in una economia di mercato.
E a questo punto mi piace citare uno dei miei maestri di filosofia del diritto, Antonio Zanfarino. In un saggio recentissimo su "Nuova Antologia", egli descrive la logica di un economicismo che riduce la convenienza all’abuso, l’espansione alla prevaricazione, il bisogno all’impulso naturalistico, la competizione alla frode, il profitto all’usura. Questa, ricorda, è la tentazione dell’economicismo, che è indifferente alle piccole e grandi idealità della vita.
Ecco, mi sembra importante non abbandonare la memoria, ma cercare sempre più la qualità. E concludo con una riflessione su un articolo di padre Francesco Occhetta, della Compagnia di Gesù, sulla "Civiltà Cattolica". Il tema, al centro di lunga e persino martellante campagna informativa di "Avvenire", è la piaga sociale del gioco d’azzardo. Padre Occhetta ricorda come negli ultimi 15 anni sono cadute in Italia tutte le normative di divieto del gioco d’azzardo.
Quel gioco d’azzardo, che prima era limitato a quattro Casinò collocati verso i confini d’Italia. Padre Occhetta racconta che i Casinò stanno andando in rovina e che quello di Venezia regge grazie ai forti contributi del Comune che ne è proprietario e che lo sostiene solo per non mandare sul lastrico le famiglie di chi vi lavora.
Contemporaneamente osserviamo una diffusione capillare dell’azzardo anche nei più piccoli centri, dove in tabaccherie, bar, negozi, sale scommesse si trovano ormai oltre 450.000 slot machine (e si tratta delle sole macchine registrate, quelle che soggiacciono a qualche controllo dello Stato, laddove vi sono, poi, tutte le macchine gestite dalla malavita rispetto alle quali lo Stato riesce a fare poco). Ebbene, la diseducazione che c’è dietro il fenomeno è enorme: in carenza di controlli, c’è una attrattiva legalizzata, quasi incoraggiata, con effetti nefasti.
Il gioco d’azzardo, infatti, è tutt’ora agevolato fiscalmente. Gode di un’assai limitata pressione fiscale. Elevare la copertura, il livello di tassazione del gioco d’azzardo almeno alla media della tassazione delle attività produttive, non mi sembra una bizzarria. Perché il gioco d’azzardo deve essere meno tassato del lavoro o del reddito d’impresa? È una cosa che nessuno mi ha spiegato e rispetto alla quale fatico a trovare risposte appaganti. Sotto quest’aspetto, posso dire che la lettura delle bozze del disegno di legge di stabilità mi ha dato qualche sollievo. Le Istituzioni, il Governo si apprestano a proporre al Parlamento un aumento della pressione fiscale e maggiori vincoli al gioco d’azzardo. La ritengo una risposta salutare per educazione civica e civile, per combattere una dipendenza, la ludopatia, che è un equivalente della droga.
*Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana