E per fortuna che non era un tema pertinente con le elezioni regionali. La ricordiamo bene la battuta spesa poco prima del voto da qualche imprudente candidato che aveva irriso la decisiva sottolineatura del cardinale Bagnasco sull’importanza della questione della vita nella scelta elettorale asserendo che l’aborto non avesse a che fare con le urne. Ce l’aveva eccome, tant’è vero che da tre giorni i governatori – dai neoeletti ai veterani – non parlano che di Ru486. Segno che l’aborto nella sua versione chimica mal si adatta a essere silenziato come faccenda privata e ricacciato nell’angolo buio di un preteso "diritto individuale" che si risolve col day hospital della pillola ingerita davanti al medico e il feto "espulso" nel bagno di casa o dell’ufficio. Alla faccia dello sbandierato rispetto per la salute e la dignità femminile, oltre che della stessa legge sull’interruzione di gravidanza. La nuova fiammata nel dibattito sulla discutibilissima adozione della pillola abortiva in Italia, nei giorni in cui varcano la frontiera le prime scatole del farmaco realizzate per il nostro Paese, ha il merito di chiarire in modo ormai inequivoco i termini della questione lasciando inesorabilmente fuori gioco chi sostiene che «l’ospedale non è un carcere» e che la donna deve poter decidere se e quando uscirsene col suo dramma fisico e psicologico in pieno svolgimento. L’irresponsabilità di queste battute fa il paio con le polemiche di quanti sostengono che gli indispensabili freni regionali all’uso della pillola abortiva finirebbero con l’alterare la legge 194. Un cortocircuito concettuale bello e buono: è semmai vero, infatti, che è la pratica dell’aborto extra-ospedale a configurare nei fatti la violazione di una norma che legalizza il dramma dell’aborto ma non concede margini a pratiche disinvolte e pericolose. E dunque abbiano il coraggio i fautori della Ru486 "libera" – in testa i radicali, grandi sponsor dell’intera operazione – di andare in Parlamento a esporre al Paese le ragioni per le quali andrebbero allentati garanzie e controlli, lasciando a una donna già sofferente la valutazione su sintomi e problemi dei quali non può avere la conoscenza che ne ha il personale ospedaliero. La stessa citazione della Francia come esempio "felice" di adozione del prodotto abortivo (ideato e fabbricato Oltralpe) è un’altra bugia raccontata a chi vuole crederci: il governo francese è infatti alle prese col grave problema di un numero di aborti che, salito costantemente dopo l’adozione della Ru486, non accenna a diminuire. Siamo sicuri di voler rinunciare alle nostre pur tristi statistiche che parlano di una lenta e costante riduzione della tragedia rappresentata dagli aborti volontari? Non è allora il caso di smetterla di negare la pericolosità fisica, psichica e sociale della nuova pillola abortiva per affrontare una buona volta tutti insieme la piaga aperta degli aborti, sempre e comunque troppi? Forse, però, c’è in talune componenti culturali, politiche e mediatiche del Paese l’imbarazzo di non sapere proprio cosa dire del vero diritto che le donne italiane reclamano: quello di poter essere madri senza patire insopportabili umiliazioni professionali e sociali. La vera "rivoluzione" per l’Italia non è la nuova, miracolosa pillola con la quale regolare a piacimento le gravidanze – come se si trattasse di ascessi da estirpare – ma la libertà per le famiglie di poter allargare il numero dei figli senza rischiare la povertà. E visto che le fandonie messe in circolazione sono tante, è davvero arrivato il momento di farla finita anche con la storia dell’«aborto chimico meno doloroso di quello chirurgico»: la pillola costringe ad almeno tre giorni di penosa attesa, con effetti collaterali pesanti da sopportare e l’insostenibile idea di aver abortito da sé il proprio figlio. Può bastare come «aborto dolce»? Ben vengano allora le dichiarazioni dei neogovernatori e di chiunque, con loro, riapre il dossier Ru486: è alla vita che dobbiamo far spazio nel nostro futuro, non a una gelida chimica della morte.