Con una boutade leggera e provocante si potrebbe ormai proporre che l’8 marzo, tradizionale giornata della donna, vissuta da quest’ultima con un senso di stanca insofferenza, sia riconvertita in giornata dell’uomo. Non certo per confondere identità sessuali o ruoli, alla maniera delle culture del gender, quanto per marcare una differenza, quella femminile, non ancora del tutto assimilata nell’universo maschile. Pronto, se mai, a ricordare questa fatidica data con una mimosa alla propria donna, salvo poi a guardare con sufficienza ed inquietudine il percorso solitario della soggettività femminile, ormai consapevole dei propri mezzi simbolici e culturali e pronta a far valere, anche nelle stanze alte del potere politico ed imprenditoriale, i suoi differenti linguaggi. Sono sempre gli uomini, infatti, a mantenere nei loro confronti un atteggiamento contraddittorio: da un lato le si desiderano tradizionalmente raccolte dentro l’ambito privato, anche quando di necessità fuoriescono per motivi economici, dall’altro si continua, in forme più o meno sottili di sfruttamento, a collocarle nella sfera pubblica come delle 'icone'. Scelte o per le loro qualità fisiche - abilmente manovrate nel mercato pubblicitario e non solo - o per le loro caratteristiche 'quasi maschili', che le rendono idonee ad accedere in luoghi sino ad allora riservati agli uomini, come la politica o i vertici delle amministrazioni pubbliche. Parte da questa incapacità a riconoscere e a rispettare la differente identità delle donne, ormai più libere ed autonome almeno in Occidente (con tutto il carico di responsabilità che questo comporta) ad indebolire la figura maschile (ormai è un dato culturalmente e sociologicamente accertato), che oscilla pericolosamente fra l’incapacità di ricostruire la propria fisionomia identitaria alla luce di un rapporto paritario con il soggetto femminile, e il desiderio inconscio e potente di recuperare l’antica supremazia. Che nasca da questo scompenso, che affonda le radici in una trama sociale spesso dilacerata, il ricorso anche fra le mura domestiche della violenza brutale e incontrollata sul corpo e sull’anima delle donne? Quella violenza istintiva e barbarica del maschio che, in guerra, uccide i nemici e violenta le loro donne... Se l’attuale società civile sta scompensando e generando pericolosi deficit di ethos condiviso, non si deve forse ripartire da qui, dalla ricostruzione della densità antropologica della relazione tra donna e uomo, che impone come i due partner dell’incontro si impegnino a riconoscere nell’altro una dignità di essere che genera rispetto? Negli anni 70 e 80 del secolo scorso è stato il movimento femminile, di marca laicista ed anche cristiana, a lavorare culturalmente alla ridefinizione simbolica di una soggettività a lungo misconosciuta ed emarginata. È compito dell’uomo, oggi, rivedere con realismo la propria collocazione nella sfera privata e pubblica, che passa anche attraverso la riscoperta delle potenzialità virtuose che le relazioni tra i sessi sono in grado di costruire e di promuovere. Si impone così un cambio di paradigma culturale, quello capace di sostituire le dinamiche del conflitto con quella che in area anglosassone viene chiamata pratica della 'negoziazione', e che può essere meglio qualificata come reciproca esigenza di custodire insieme la qualità dei rapporti intersoggettivi attraverso la dialettica creativa delle due differenze.