Sono la croce e la delizia di ogni fine d’anno scolastico: a recite, saggi di ginnastica, balletti sulle punte e musical non ci si può sottrarre. Vale per i genitori ma anche per nonni, fratelli e zii che in attesa di uscire dal tunnel – si vede la luce in fondo alle elementari – si prestano a interpretare un pubblico generoso di applausi e scarso di critiche, armato di macchine fotografiche e videocamere per riprendere volteggi sulle punte e mosse di judo. Scene che si ripetono identiche da decenni, simili nei modi ma opposte negli esiti: se un tempo le immagini scattate o filmate venivano condivise con la cerchia ristretta dei parenti, oggi vengono postate seduta stante sui
social network, rese accessibili a un giro molto più ampio di conoscenze. E di sconosciuti. Gli analfabeti digitali ma smanettoni ancora si illudono di parlare con gli amici del loro profilo e non si accorgono di stare urlando dentro un megafono in una pubblica piazza; credono di confidarsi con pochi intimi quando hanno già rinunciato a qualsiasi intimità. E se le piazze reali contengono un numero consistente ma comunque limitato di persone, in quelle virtuali la capienza non ha fine, la visibilità è all’ennesima potenza. Prima di affidare qualsiasi immagine al web – qualsiasi cosa: pensieri, opere ed omissioni... – bisognerebbe avere ben presente che altri potranno usarla come pare loro, senza che le persone riprese lo vogliano, senza che ne abbiano coscienza. In rete siamo tutti visti ma non sappiamo chi ci guarda: come nel Panopticom, il carcere ideale progettato nel 1791 da Jeremy Bentham – non era né architetto né ingegnere ma filosofo e giurista – che immaginò una struttura dove un unico sorvegliante fosse in grado di controllare tutti i detenuti. Una torre centrale circondata da celle disposte in cerchio, con due finestre: una verso l’esterno, che garantiva la luce, una rivolta all’interno, per consentire al sorvegliante di fare il suo lavoro. Noi andiamo anche oltre, perché al nostro sorvegliante ci consegniamo entusiasticamente, offrendogli i particolari più intimi delle nostre vite, i nostri nomi, i nostri gusti e i nostri disgusti, i volti, le abitudini, le speranze... Di più: è ad Argo Panoptes che apriamo le porte, il gigante della mitologia greca – che ispirò Bentham per il suo carcere ideale – che aveva più di cento occhi, anch’egli guardiano perfetto. Non a uno, quindi, ma una moltitudine di sguardi. E per sempre: dalla rete è quasi impossibile cancellare alcunché: ci piacerà anche domani quello di cui andiamo fieri oggi? E passi per il genitore che espone in rete il proprio figlioletto, contando che a quell’immagine vengano rivolti solo sguardi benevoli. Ma i figli altrui? La tutela della privacy è soggetta a una legge che detta regole precise anche per i saggi di fine anno, per le foto e i video di cui genitori, nonni e zii sono così prodighi: nel caso si intendesse pubblicarli e diffonderli in rete, anche sui
social network, è necessario ottenere il consenso delle persone presenti nei video o nelle foto. E chi si accorgesse che le immagini del proprio figlio sono finite dove non dovevano, in siti inappropriati, preda di occhi maliziosi, può rivolgersi al Garante per la protezione dei dati personali o alla Polizia postale per chiedere che vengano rimosse. Può chiederlo, e la rimozione sarà effettuata, ma non sarà mai certo – anzi, il contrario – che siano sparite per sempre dal web. Una volta che sono lì, lì restano. E se ne perde il controllo. Il Garante in questi anni ha portato avanti importanti campagne di informazione rivolte a ragazzi, genitori e insegnanti, utilizzando il canale Youtube, pubblicando vademecum, promuovendo iniziative di sensibilizzazione, anche attraverso test per valutare la capacità di tutelare la propria privacy in rete e concorsi rivolti alle scuole... Ma in fatto di protezione dei dati sensibili siamo ancora all’anno zero: basta la promessa di una app gratuita o la possibilità di una raccolta punti per convincerci a confessare ben più di nome, cognome e numero di matricola. I bambini vanno educati a proteggere la propria riservatezza, ma chi li educherà se sono gli adulti i primi ad agire con leggerezza? Amy Webb – che negli Stati Uniti è considerata un guru della strategia digitale – già anni fa sorprese molti dei suoi ammiratori invitando i genitori a fare come lei e il marito, cioè a vivere sui
social network come se non avessero figli: anche per tutelare la loro privacy, ha spiegato con umorismo, perché, crescendo, potrebbero non essere felici di incappare in rete nella loro foto sul vasino...