L’umanesimo della misericordia si vive nelle realtà quotidiane Un momento bello, buono, significativo. È questo ciò che si è potuto cogliere nelle parole e nei volti dei delegati al V Convegno ecclesiale. Un momento serio, operoso, partecipativo, generativo. Nessuno si è sottratto all’ascolto, al confronto, al dialogo, alla riflessione, alla propositività. E ora? Bisogna rassegnarsi all’idea che la risonanza delle emozioni, degli incontri, dei contenuti svanisca progressivamente e che il tutto resti solo un bel ricordo? Dipende da noi, perché portiamo a casa doni che possiamo valorizzare. Il Convegno di Firenze, infatti, non aveva lo scopo soltanto di raccogliere, ma di seminare con coraggio e pazienza. Per questo il lavoro che ci sta di fronte, se lo sappiano riconoscere, è molto. Va evitata la logica della “parentesi”, che fa sì che Il Convegno si trasformi in un semplice file archiviato, a cui segue una nuovo evento, che resti solo casella su cui abbiamo scritto “fatto”. Ugualmente, è importante evitare la logica della deduzione, ossia il ritenere che quanto vissuto ed elaborato durante Firenze 2015 possa essere applicato subito e con facilità nelle nostre diverse realtà ecclesiali. Una logica meramente applicativa porta presto alla disillusione che ci fa dire “è stato bello, ma qui da noi è diverso, siamo in pochi… non si può fare…”, e così tutto continua come prima. Qualcosa in realtà possiamo fare. Innanzitutto, vale la pena non lasciarci prendere dall’ansia di vedere subito frutti immediati, per gustare invece quanto di positivo è stato realizzato. Dal Convegno esce il volto di una Chiesa Italiana appassionata di ogni uomo, decisa e determinata a prendersi cura di ogni persona con lo stile dell’umanesimo cristiano che papa Francesco ha sintetizzato in umiltà, disinteresse, beatitudine. In secondo luogo, possiamo lasciarci contagiare positivamente dalla prospettiva sinodale e dalla metodologia di lavoro sperimentata. Tale metodo, come è stato giustamente detto, è una mappa di riferimento che ci dice che lavorare insieme è possibile. Non è di poco conto portare a casa e alimentare questa consapevolezza. Certo mettere in atto un lavoro comune non è semplice: chiede pazienza, preparazione e soprattutto un atteggiamento di fiducia e di apertura. Troppe volte siamo sospettosi sulla fruttuosità dei nostri incontri, delle nostre riunioni, dei nostri organismi. Firenze rappresenta un invito a cambiare sguardo, a scommettere sulla partecipazione, purché da un lato non si improvvisi e dall’altro non ci si aspetti sempre risultati a breve termine. Si può investire nel dialogo, nel confronto, nella collaborazione e nella corresponsabilità se si riconosce che tutto questo ci farà toccare anche i nostri limiti e saremo rimandati costantemente a riconoscere il dono di una comunione che ci precede. Ma oltre il metodo il Convegno è stato una fucina di idee, proposte, linee di lavoro, che hanno mostrato la ricchezza e la varietà della Chiesa italiana. Nelle nostre comunità abbiamo bisogno di riprendere questa ricchezza in modo non generico, riprendendo alcuni aspetti per sottoporli a una ulteriore riflessione. Abbiamo bisogno di un operosità “pensosa”, creativa, capace di trasformare gli impegni in progettualità precise. La concretezza dell’umanesimo cristiano chiede proprio questo: agire partendo dalla realtà in cui si vive, avendo a cuore i volti le storie delle persone che si incontrano quotidianamente. Ogni diocesi, ogni realtà ecclesiale, può mettere in moto un tempo di rinnovata progettualità per rendere visibile l’umanesimo della misericordia, sostenuti dal tempo prezioso del Giubileo, che sta per aprirsi. Si torna a casa, si comincia…