venerdì 15 aprile 2011
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Raidue, ore 20 e 15 di mercoledì sera. Sull’Isola dei famosi Emanuele Filiberto di Savoia costruisce una capanna per accogliere i suoi compagni naufraghi: eccoli che arrivano, belli e abbronzati, su una barchetta che approda dolcemente sulla spiaggia dorata. Raidue, pochi minuti dopo: sul tg le immagini traballanti del naufragio, vero, di una barca di migranti a Pantelleria. Il mare è grosso, il naviglio stracarico si è schiantato sugli scogli. Bambini strappati alle onde, e due donne morte a pochi passi dalla riva. Le facce dei naufraghi, quelli veri: facce nere, facce di uomini lividi di freddo e di paura dopo una mortale odissea, in fuga dalla guerra o dalla miseria del Corno d’Africa.Lo spettatore seduto in soggiorno registra sovrappensiero le singolare sequenza di naufragi: la finzione e il vero, il gioco e la tragedia. Qualcosa non torna, si dice fra sé. Sembrano, quelle scene a pochi minuti di distanza su una tv occidentale, segnate da una assurda distonia: come se appartenessero a due evi diversi. Uno il nostro, garantito, fatuo, e uno remoto; quello in cui le caravelle naufragavano sulla via delle Americhe, portando con sé nel fondo dell’oceano sfortunati coloni in cerca di nuova terra e fortuna. Ma siccome quei naufragi, il finto e il vero, sono contemporanei - si dice ancora fra sè il telespettatore - forse i due eventi appartengono a diversi mondi, o piuttosto pianeti. Il primo, dove per ingannare la noia e fare audience si immagina una vita da Robinson Crusoe, però con adeguate creme di protezione solare; l’altro, il "loro", quello dei miserabili portati dalle onde a Pantelleria, rigorosamente distinto, e ben separato dal nostro con adeguate misure e frontiere. Sì, deve essere così: ci sono due mondi temporalmente paralleli, ma non comunicanti; mentre in uno si gioca a naufragare per diletto, nell’altro si traversa il mare per disperazione, e si annega davvero.Il telespettatore sul divano archivia la questione, e ascolta gli altri servizi del tg. Ma qualcosa continua a lavorargli nei pensieri. Devono essere spinti da un’urgenza feroce davvero, quei là che traversano il deserto e si imbarcano su delle zattere, perfino con i bambini in braccio, perfino con un figlio nel ventre. Sembrano il fiotto d’acqua che schizza attraverso la crepa di una diga: nessuna barriera riesce a contenerli, il bisogno che li spinge è più forte. Laggiù oltre il deserto, dove noi non vediamo, preme questa tensione verso una agognata salvezza e abbondanza. Somiglia alla pressione sotterranea di una faglia che spinga forte contro un’altra. Nel momentaneo apparente equilibrio cova una forza che non si potrà per sempre ignorare - anche la fame e la miseria possono essere forza, se spingono, a qualsiasi costo, a partire.Nel nostro mondo intanto si gioca ai naufraghi, e in milioni stanno avvinti a guardare quei bei ragazzi in bermuda preoccupati della nomination. Ragazzi? Chissà perché poi da noi li chiamiamo così, anche quando hanno più di trent’anni. Mentre i ventenni che annegano nel Mediterraneo nelle cronache li chiamiamo "uomini", e "donne". Dev’essere, conclude il telespettatore assorto, una diversa regola vigente nei due stranieri separati mondi. In quell’altro là sotto uomini si diventa subito, con bruciante fretta; e si saluta, e si parte, e si naufraga, e talvolta si muore. E tuttavia, continuano a partire - con la cieca straordinaria tenacia di chi domanda di vivere. (Sull’Isola, nel frattempo, i nostri naufraghi immaginari continuano a prendere il sole). Come l’eco di qualcosa che non torna; una disequità stridente che sotto ai contrapposti mondi, pur ben divisi da rigorosi confini, tuttavia lievita, e preme.
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