Evidentemente, si tratta di una resa dello Stato. Non riuscendo a perseguire un reato, lo legalizza. O forse, qualcuno mormora, il business della coltivazione di canapa indiana è troppo importante per il Pil della nazione e non si possono più permettere che venga contrastato.
Si può manifestare per la libertà dalle dittature, per la libertà di qualche prigioniero ingiusto, per la libertà di opinione. Ora abbiamo dunque anche le manifestazioni per la libertà di stordirsi e drogarsi. Il grande Baudelaire avvertiva che la droga – anche la leggera – non fa ammalare il corpo, ma una cosa ben più importante, che è la volontà. Infatti, ragionava nei suoi tanto citati quanto poco letti o compresi scritti sull’hashish, se a un uomo consegni una parvenza di paradiso con un cucchiaino (allora si usava così, oggi con un rotolo d’erba) perché mai tale uomo dovrebbe poi impegnarsi per ottenere qualcosa, per migliorare se stesso e il mondo davvero, con il lavoro, la tenacia, la perseveranza? Avrà organi sani (forse) ma sarà ammalato dentro. Nella volontà. E, concludeva il poeta, lo Stato che voglia ridurre i suoi cittadini a sudditi deve semplicemente liberalizzare l’uso delle droghe. Così li avrà dipendenti.
Adesso la libertà di drogarsi può essere facilmente scambiata come una conquista di libertà. Ma a ben vedere è una gentile concessione di uno Stato debole coi forti e furbo coi deboli. Specie coi giovani. Non daranno fastidio al conducente. Hanno un po’ di felicità, o di sua 'scimmia' (malacopia) gratis, cosa vogliono di più? Non si tratta di opporre proibizionismo a libertarismo. Ma di stimare la volontà e la libertà umane più meritevoli e degne di un po’ di 'beatitudine' a poco prezzo. Lo aveva capito il poeta che andava controcorrente. E che la mentalità borghese del tempo bollò perciò come 'maledetto'.