L'Europa deve far capire che è dalla parte dei popoli
martedì 17 dicembre 2019

Votando per Boris Johnson, gli inglesi hanno definitivamente suggellato la loro volontà di abbandonare l’Unione Europea. Proviamo a fare un passo avanti. Molte analisi sulla Brexit si sono concentrate sugli egoismi che stanno alla base di una tale scelta. Ciò che invece non è stato fatto abbastanza è tentare di capire perché gli egoismi si siano rimessi in moto. Sappiamo che uno dei moventi della Brexit è il sentimento di avversione verso l’ondata migratoria che ha investito la Gran Bretagna nell’ultimo decennio.

Ma un popolo abituato da oltre un secolo a convivere con un gran numero di immigrati provenienti da ogni parte del mondo, non diventa xenofobo all’improvviso. Lo diventa solo quando nuovi elementi di contesto rendono la situazione così difficile, da fare avvertire gli immigrati non più come dei bisognosi da accogliere o come nuove persone che possono contribuire al rafforzamento della propria casa, ma come degli usurpatori che pretendono di trovare riparo sotto un tetto ormai così mal messo da non riuscire a dare copertura neanche agli abitanti originari. Qui scatta una xenofobia che non è figlia del cattivismo, ma dell’insicurezza. È dell’insicurezza che, dunque, dobbiamo occuparci con due distinti compiti: uno a carico del Paese ospitante, l’altro a carico dei Paesi con emorragia migratoria. Che nel caso specifico chiamano in causa da una parte la Gran Bretagna, dall’altra l’Unione Europea. Infatti, il grosso dei migranti che nell’ultimo decennio ha attraversato la Manica lo ha fatto con un passaporto dell’Unione.

La Gran Bretagna deve chiedersi come ha fatto a rendere la propria situazione interna così fragile, sapendo che pur appartenendo all’Unione Europea ha sempre conservato una buona dose di autonomia in virtù della moneta propria. Londra sa che l’origine della sua attuale fragilità va ricercata nella malagestione bancaria, non solo quella di oltre Atlantico, ma anche di casa propria, considerato che l’azzardo portò alla crisi di colossi bancari come Northern Rock, Royal Bank of Scotland, lo stesso Lloyds. Secondo un rapporto della Camera dei Comuni, dal 2007 al 2009 il Governo britannico ha speso 107 miliardi di sterline per nazionalizzare o ricapitalizzare banche inglesi sull’orlo del precipizio. E anche se buona parte di quei soldi oggi sono rientrati, l’operazione ha comunque avuto effetti pesanti sulla spesa pubblica inglese. Basti dire che lo stesso Boris Johnson ha inserito il potenziamento del Servizio sanitario nazionale fra i punti qualificanti del suo futuro governo. Ma oltre ai tagli alla spesa pubblica vanno considerati gli effetti sull’occupazione provocati dalla recessione globale. Via via che l’economia si contraeva, migliaia di lavoratori britannici perdevano il lavoro mentre le imprese smettevano di assumere. Alla fine del 2011 in Gran Bretagna quasi tre milioni di persone erano in cerca di lavoro, l’8,3% della forza lavoro. Solo nel 2015 la disoccupazione tornò al 4,3%, gli stessi livelli del 1995. Tutto sommato la tempesta fu di breve durata ma lasciò segni profondi nel corpo del popolo inglese che a fronte di tanta disoccupazione vedeva crescere l’immigrazione dal resto d’Europa. Dal 2009 al 2017 la Gran Bretagna ha registrato l’arrivo di 2,3 milioni di nuovi stranieri di cui 1,5 provenienti, appunto, dalla Ue.

Ed è a questo punto che la palla passa nel campo di Bruxelles che deve chiedersi come ha fatto a mettere in moto una emorragia migratoria tanto vasta. E tutti sanno che la risposta sta nelle politiche di gestione dei debiti sovrani. Fatta la scelta di non lasciare agli Stati dell’Eurozona altra possibilità di finanziamento dei propri deficit se non rivolgendosi ai mercati, la priorità dell’Unione è diventata quella di assicurarsi la fiducia degli investitori. E siccome la fiducia si conquista dimostrando di sapere essere debitori affidabili, gli Stati dell’Eurozona si sono dati come obiettivo il rigore finanziario finalizzato al servizio del debito. Le inevitabili conseguenze sono state tagli all’istruzione, alle spese sociali, alla sanità, alle pensioni con aggravamento della recessione in atto che al contrario avrebbe richiesto politiche di rilancio pubblico.

Così i Paesi più deboli dell’Eurozona hanno visto crescere povertà e disoccupazione, con inevitabile aumento dell’emigrazione che si è abbattuta sui Paesi a maggior resilienza, fra cui la Gran Bretagna. Ma a un certo punto gli inglesi hanno manifestato crisi di rigetto e per dichiarare, una volta per tutte, la propria indisponibilità a continuare a fare, per la propria quota, da 'ammortizzatori' europei. Su latte versato è inutile piangere, ma ora la Ue deve decidere che fare: se continuare a privilegiare i mercati col rischio di perdere altri popoli o se privilegiare i cittadini ridimensionando i mercati. La scelta potrebbe sembrare ideologica, in realtà è una questione di sopravvivenza. Se l’Europa vuole avere futuro deve farsi amare dai cittadini e per farsi amare deve dimostrare di lavorare per loro con strumenti adeguati. Primo fra tutti dotandosi di una moneta comune gestita secondo logiche di servizio ai Governi, affinché possano perseguire la piena occupazione e la promozione dei servizi pubblici senza impantanarsi in debiti impagabili scaricati sui più deboli e sulle generazioni future. Keynes ce l’aveva già insegnato quasi un secolo fa. Ma la sua visione era di un’economia al servizio della persona.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI