L'acqua, sei donne, le vittime di Genova. Colpisce la strana antica e nuova relazione. Da sempre l’acqua e la donna sono legate. Acqua e donna, origine e misteriosa custodia della vita. Fin dal grembo materno. Le acque della nascita. E ora, acque della morte e delle lacrime, in questa Genova devastata, grembo della morte. Acqueo l’elemento femminile, in saghe antiche, in favole, in grandi figure storiche e mitiche. Al fiume la madre affida il neonato Mosè. Al fiume affida la propria finale pena l’Ofelia di Shackespeare. Didone abbandonata contempla il mare.La donna è l’acqua della vita. Per questo sembra ancora più crudele, più misterioso, fino allo spasimo di pianto e quasi di bestemmia che si trasforma al limite in invocazione, il destino della piccolissima Janissa, di Gioia, della loro mamma Sphresa, e di Serena, Angela, Evelina. Tradite e rapite in cielo da un’acqua impazzita, a causa delle nubi che oscuravano il cielo ligure e delle nubi che hanno oscurato le menti di costruttori, ingegneri, amministratori. Ora queste donne dell’acqua si ergono a giudice – ben prima e ben di più degli inevitabili tribunali – di chi può avere qualche responsabilità nella tragedia. Le loro anime lievi sono di certo sopra le nubi del cielo di Genova e sopra il nostro annuvolato pianto.Le lacrime che noi versiamo per loro non siano vane. Non siano solo lacrime piene di morte e di disperazione. Siano anche acqua di rinascita. È più difficile, certo. Nessuno può fermare dopo il diluvio un altro diluvio di lacrime. Può farlo solo il Nazareno che disse: «Non piangere» alla vedova di Nain che seguiva il funerale del figlioletto. E lo disse prima di chiamare a nuova vita il ragazzino, come a dire che la morte e il dolore non sono l’ultima parola. Perché l’ultima parola ce l’ha un’altra acqua, che è l’acqua da lui versata dal costato ferito, dal corpo che risorgerà. Genova è una città cantata, amata drammaticamente come una donna fascinosa e ambigua da tanti cantanti e poeti, come i grandi Lauzi e Caproni. E anche il sindaco ora è una donna. Marta Vincenzi si trova a fronteggiare una situazione enorme. Avrà bisogno di tutta la sua fermezza e di tutta la sua pazienza. Di ogni sua dote femminile per fare fronte all’acqua che uccide le donne. E di ogni umiltà femminile per non sfuggire alle richieste di chiarimenti. E lei, come tante altre donne, che accanto ai soccorritori, ai volontari, stanno dando una mano, deve di nuovo dare credito alla speranza, alla pazienza. Alla tenacia che sappiamo essere in tante occasioni di difficoltà sociale, familiare e personale la risorsa per non cedere alla malora. Sono le donne che rammagliano il mondo. Il più delle volte è così. Sono le donne, spesso, a patire di più, e a cedere di meno. Come se la loro natura acquea potesse più naturalmente ospitare il germinare della vita, anche dopo e dentro le prove più dure. Lo abbiamo visto tante volte. La morte tremenda di queste sei donne sia un richiamo: all’acqua che uccide – poiché male imbrigliata dalla cupidigia o dalla insipienza di alcuni –, all’acqua che distrugge, occorre opporre l’elemento generatore, fertile di un’altra acqua. Alla crisi e alla prova che colpisce Genova in modo speciale e tutta l’Italia in questo momento difficile, occorre opporre un’altra acqua. Quella che viene da dentro, che costituisce le nostre cellule spirituali e umane. L’acqua della continua irrigazione, della speranza, della pazienza, della tenacia. Molte nostre nostre donne lo stanno facendo. Ci sono esempi di dedizione impressionanti. La morte a Genova di queste donne, bambine, madri, lavoratrici, ce lo ricordi. Ce lo imprima nel cuore.