A cosa aspira una persona giovane se non a una vita «non mediocre», «riuscita», cui saper dare «un senso pieno»? Benedetto XVI lo sa per esperienza e sa leggere quel che realmente i giovani dicono, magari mentre sembrano affermare tutt’altro. Sa che al dunque non chiedono se non di essere «pienamente felici» e di niente di meno possono accontentarsi, tanto da far proprio lo stesso grido di Pier Giorgio Frassati: «Voglio vivere e non vivacchiare!».Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della gioventù ormai alle porte – la prossima Domenica delle Palme –, diffuso ieri, li prende così sul serio da proporre la storia di uno di loro: quel «giovane ricco» del quale parla il Vangelo di Marco e che al Signore chiedeva la formuletta per guadagnarsi «la vita eterna», nientemeno. Si aspettava forse la conferma che l’osservanza delle regole codificate gli sarebbe bastata per cavarsela, ma si sentì dire che per avere tutto quanto il suo cuore desiderava era proprio «tutto» che doveva lasciare –«possedeva infatti molti beni» –, e «se ne andò rattristato». Tristezza? È ciò che più fa orrore ai giovani, tanto che per evitarla sono disposti a qualsiasi acrobazia. E allora come si fa a non far la fine del giovane ricco? Il Papa lo dice ai ragazzi del mondo col suo tono diretto e paterno, e lo si ricorda in quella dolce sera del settembre 2007 a Loreto con 400mila giovani italiani, intento a spiegare il Vangelo come duemila anni fa il Maestro sulle colline di Galilea. «Per scoprire il progetto di vita che può rendervi pienamente felici – scrive loro – mettetevi in ascolto di Dio, che ha un suo disegno di amore su ciascuno di voi», e che dunque non va temuto come un tiranno esigente.Il Papa garantisce: «Il cristianesimo non è primariamente una morale, ma esperienza di Gesù Cristo, che ci ama personalmente», anche «quando gli voltiamo le spalle». Non deve succedere allora di sentirsi tagliati fuori, destinati a un auto-esilio, lontani da una Chiesa immaginata estranea a quel che si agita nel cuore degli anni più inquieti. È vero l’esatto contrario: la Chiesa sa che i giovani sono «ricchi», ricchissimi – «di qualità, di energie, di sogni, di speranze», snocciola il Papa – e che quei beni li posseggono «in abbondanza», ma come quel loro coetaneo che incrociò lo sguardo del Nazareno si chiedono «cosa devo fare?». A cosa mi serve tutto questo se non per qualcosa di grande, senza fine, eterno addirittura? Chiedono, reclamano di «vivere intensamente e con frutto in questo mondo». E Benedetto dà voce alla loro attesa di una proposta che li metta sulle tracce di una felicità illimitata proponendo loro la scelta liberante di un’esistenza costruita sull’asse dei comandamenti, «domande controcorrente rispetto alla mentalità dominante». Alla richiesta giovanile di un «progetto di vita» all’altezza delle attese più profonde il mondo replica proponendo allegria e benessere a prezzi di saldo: e sugli scaffali sistema «una libertà svincolata da valori, da regole, da norme oggettive», che spinge a «rifiutare ogni limite ai desideri del momento». La libertà tanto ambìta è deformata nella sua caricatura, perché il giovane, senza sapere come, si ritrova «schiavo di se stesso, dei suoi desideri immediati, degli idoli come il potere, il denaro, il piacere sfrenato». E una volta ancora è destinato ad andarsene via, mortalmente triste. Ma c’è chi non si stanca di cercarlo, per posare una volta ancora su di lui uno sguardo di sbalorditivo amore.