Non bastava il divorzio breve. Non bastava il divorzio fai-da-te davanti al sindaco o all’ufficiale giudiziario. Adesso sul trampolino di lancio della Commissione Giustizia del Senato arriva il divorzio diretto, o ultrarapido, che dovrebbe consentire ai coniugi senza figli minori o con figli oltre i 26 anni autosufficienti, di saltare la tediosa attesa della separazione. Davvero una scelta 'illuminata': subito liberi, disponibili per una nuova avventura senza intralci di carte bollate e lungaggini giudiziarie... Di questo passo, arriveremo al divorzio via email o sms. Magari con il solo obbligo di mandare un tweet al sindaco o, per essere ancora più fulminei e non importunare il primo cittadino – magari assorto nella registrazione di qualche unione di genere alternativo – al dirigente di zona dell’anagrafe. Avremo, così, raggiunto l’obiettivo fondamentale: rendere labili ed effimeri i legami, quasi impalpabili le relazioni, addirittura inconsistenti i rapporti familiari. Un traguardo di modernità che contribuirà senz’altro a far entrare anche la nostra Italia nel novero dei Paesi all’avanguardia nella tutela dei nuovi 'diritti civili'. Perché è senz’altro un dato di civiltà e, insieme, di saggezza politica quello di impegnare le istituzioni per contribuire all’instabilità delle relazioni, attenuare o magari azzerare il senso di responsabilità, moltiplicare i disagi per i coniugi più deboli e sicuramente per i figli. Peccato che, mentre il nostro Parlamento avanza a tappe forzate nel suo programma di divorzio express, ci siano altri Paesi che cominciano a preoccuparsi di quello che avviene dopo. E, alla luce dei disastri sociali e dei costi economici del divorzio senza barriere, tentino di correre ai ripari. È il caso dell’Inghilterra, dove il ministro del Lavoro Ian Duncan Smith, ha annunciato un programma educativo, da affidare ad assistenti sociali e sanitari, per insegnare ai giovani l’«amore corretto». Cioè destinato a reggere la sfida del tempo, prevenire e magari ridurre le dolorose e frequentissime rotture, producendo allo stesso tempo vantaggi e risparmi per la coppia e per la società. Sì, perché la laica e moderna Inghilterra si è accorta che quanto più i matrimoni si spezzano, quanto più frequentemente le relazioni familiari si trasformano in campi di battaglia per l’esercizio di conflitti astiosi e laceranti, tanto più l’intera società sopporta pesantissime conseguenze. A Londra e dintorni, dove gli indici di divorzio sono dieci volte superiori ai nostri, anche la microcriminalità giovanile – guarda caso – presenta percentuali decuplicate. Quindi spese aggiuntive per l’assistenza, il recupero e la rieducazione dei ragazzi. E costi crescenti anche per l’ordine pubblico e per la giustizia. E poi ci sono le spese per il welfare. Ogni inglese – sono sempre dati del ministro britannico – deve sopportare ogni anno un aggravio di 1.546 sterline per i costi del cosiddetto postdivorzio, cioè di tutte quelle incombenze legate all’urgenza di trovare un nuova abitazione, individuare nuovi servizi assistenziali, ridefinire il proprio ruolo nella società in conseguenza del diminuito potere d’acquisto. Perché è bene dirlo con franchezza. Quanto più si promuove il divorzio, tanto più si apre la strada alla povertà. E non saranno solo le coppie, i figli, i parenti più stretti a soffrirne. Ma l’intera società. L’Inghilterra, che prima di noi ha sperimentato le conseguenze devastanti e gravissime di una politica indifferente o addirittura ostile alla tenuta del matrimonio, ora vorrebbe fare marcia indietro. E non, evidentemente, per ragioni 'confessionali'. A noi può far sorridere che si pensi di affidare agli assistenti sociali l’educazione all’amore. La ricetta non sarà risolutiva, ma è indice di una preoccupazione che nasce dalla constatazione di dati oggettivi. E l’equazione 'matrimoni più fragili, divorzi più facili' dà sempre come risultato società più povere, frammentate, instabili. È questo che si propongono i nostri parlamentari? Invece di dedicare tante energie politiche ad agevolare la frantumazione dei patti di solidarietà, non sarebbe più saggio preoccuparsi di investire sulla cultura della responsabilità e della stabilità?