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Ambientato nella Virginia del 1961, il film Il diritto di contare narra la storia della matematica afroamericana Katherine Johnson, impiegata alla Nasa e costretta a fare i conti coi pregiudizi e le angherie dei colleghi e, ogni volta che ha bisogno del bagno, correre per un chilometro per raggiungere l’unico aperto alle persone di colore. Solo in virtù del suo fondamentale contributo al successo del programma spaziale otterrà il diritto a usare i "bagni dei bianchi": è grazie a un’intelligenza fuori dal comune che Katherine riuscirà a scardinare l’ordine imposto da un regime di segregazione razziale e di genere così radicato da essere considerato naturale. Il riconoscimento della composizione plurale delle forze di lavoro è stato un processo lungo e non ancora compiuto, ma che oggi conosce una straordinaria accelerazione. Quasi sconosciuta fino a pochi anni fa, l’espressione DEI-Diversity, Equity and Inclusion si sta imponendo anche in Italia come nuova ortodossia nella gestione delle risorse umane. Le ragioni sono molteplici e vedono le imprese da un lato riflettere richieste e preoccupazioni del contesto socioculturale più ampio e, dall’altro, concorrere con le loro scelte ad affermare una certa idea della "diversità" e del suo valore.
Innanzitutto, la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha fatto emergere la natura non neutra, rispetto al genere, delle pratiche e delle culture aziendali, un fenomeno paradigmatico rispetto alla sfida di gestire staff aziendali destinati a divenire sempre più compositi. Oltre ai modi in cui le diseguaglianze societarie si riverberano nelle imprese e nel mercato del lavoro, la femminilizzazione delle organizzazioni ha disvelato l’opportunità di mettere a valore qualità e attitudini specificamente femminili, o presunte tali (l’empatia, le abilità comunicative…), esaltandone il potenziale rispetto alle esigenze competitive delle imprese post-fordiste. L’accresciuta longevità, con l’inevitabile prolungamento delle carriere lavorative, ha a sua volta spinto le aziende a cimentarsi con la gestione delle età al lavoro, ovvero la convivenza tra persone con competenze diverse e bisogni diversi e che, per di più, esprimono differenti concezioni e aspettative rispetto al lavoro, al senso del lavoro e al suo rapporto col senso della vita.
E ancora, grazie all’immigrazione dall’estero, la società e il mercato del lavoro hanno conosciuto un’ulteriore grande trasformazione: una popolazione abituata a rappresentarsi come omogenea dal punto di vista etnico, linguistico, culturale e religioso è divenuta via via più eterogenea nella sua composizione, trasformando le aziende in laboratori di convivenza. A spiegare l’irrompere della filosofia DEI nei luoghi di lavoro vi sono poi ragioni di carattere socioculturale. Tra le più rilevanti, i cambiamenti che hanno investito i regimi di genere e i modelli familiari. Ma, anche, l’incessante processo di "produzione" di nuove identità e diversità, tipico della cultura contemporanea: l’esempio più eclatante è il progressivo allungamento dell’acronimo LGBT, per includervi via via nuovi gruppi definiti in base all’orientamento e alle identità sessuali.
Infine, a livello normativo e istituzionale, sempre più numerose sono le indicazioni e gli obblighi cui le imprese devono ottemperare. In particolare, la certificazione di genere sta incoraggiando le aziende ad assumere impegni più concreti e "misurabili" in tema di pari opportunità, così come la richiesta di rendicontare anche gli aspetti non-finanziari della gestione induce a prestare maggiore attenzione agli impatti sociali ed etici dell’agire d’impresa: in questo quadro, le pratiche DEI occupano intuitivamente un posto di primo piano. A ben guardare, oggi la DEI costituisce una strada obbligata. A livello aziendale, per posizionarsi entro una competizione sempre più accesa per aggiudicarsi risorse umane disponibili in quantità limitata, e soprattutto per attrarre e trattenere i giovani, molto sensibili a questi temi. A livello societario, per assicurare la riproducibilità del nostro modello sociale e il finanziamento delle prestazioni di welfare. Nell’attuale quadro demografico, quella che un tempo avrebbe potuto essere liquidata come "mera" questione di equità è già divenuta una questione di sostenibilità: mantenere ampi settori della popolazione ai margini del mercato del lavoro, così come sottovalutare le capacità e il potenziale dei gruppi tradizionalmente discriminati, sono "lussi" che non possiamo più permetterci.
In linea teorica, quello definito dalla DEI è un programma ambizioso ed "etico". La diversità porta a considerare le persone come diverse le une dalle altre o, per essere più precisi, ad apprezzare l’unicità di ogni persona, irriducibile ai gruppi sociali dei quali fa parte. L’equità corrisponde al principio delle pari opportunità; comporta l’impegno a prevenire e contrastare le discriminazioni, ma anche la possibilità di prevedere sostegni specifici o corsie preferenziali per coloro che fanno parte di gruppi storicamente svantaggiati: è il caso delle "quote rosa" (legge 120/2011) che hanno imposto una percentuale minima di donne nei CdA delle grandi società, oppure delle norme sul collocamento mirato delle persone con disabilità (legge 68/1999).
L’inclusione evoca invece la creazione di un contesto che tutti e tutte percepiscano come equo e accogliente. Ciò richiede la rimozione delle barriere che rendono inaccessibili alcuni spazi alle persone con disabilità. Ma anche, ad esempio, l’utilizzo di un linguaggio che non incorpori pregiudizi o che possa essere considerato offensivo, chiamando in causa le dimensioni relazionale, culturale e simbolica delle culture organizzative. A queste tre parole chiave si tende oggi ad aggiungere l’appartenenza, che indica l’obiettivo di realizzare ambienti di lavoro dove ci si possa sentire rispettati e liberi di esprimere la propria unicità e la propria "unitarietà", ossia di portare l’intero sé al lavoro (fatto anche di vulnerabilità e di istanze valoriali e spirituali) dando così vita a un clima di fiducia reciproca. La traduzione concreta di queste attenzioni non è però semplice. Talvolta ridotte a mode manageriali, le iniziative nel campo della DEI implicano di scardinare routine organizzative consolidate e stereotipi spesso inconsapevoli. Esse inoltre richiedono un’attenzione agli impatti che si vogliono generare e ai possibili effetti ambivalenti.
È noto, ad esempio, come gli interventi a favore delle donne lavoratrici hanno spesso finito col rafforzare l’idea della conciliazione famiglia-lavoro come un "problema delle donne". Così come, nel loro atteggiamento verso immigrati e rifugiati, le aziende rivelano, ancor oggi, la tendenza ad apprezzarne soprattutto l’adattabilità ai lavori meno appetibili, facendosi guidare dal pregiudizio che siano destinati a concentrarsi nei gradini più bassi della gerarchia professionale. Per di più, la gestione della diversità è resa ancor più complessa dalla sua ideologizzazione. Un esempio - che ci riporta alla storia proposta in apertura - è quello dei bagni: talvolta divisi, secondo tradizione, per uomini e donne; spesso resi gender neutral e aperti a chiunque; oppure risemantizzati esibendo la loro predisposizione ad accogliere soggetti "in transizione". All’intreccio tra istanze che riguardano igiene, privacy, sicurezza, moralità, pudicizia, confort, le soluzioni proposte in nome dell’inclusione e del rispetto della diversità rischiano di produrre altre forme di esclusione e insensibilità. Tutto ciò mentre, ancora troppo spesso, le toilette sono inaccessibili alle persone con difficoltà di deambulazione. È utile allora ribadire che le pratiche DEI non sono una soluzione pronta da applicare. Si tratta, invece, di uno strumento - e di una grande occasione - da maneggiare con competenza e consapevolezza, misurandosi col piano etico e valoriale.