martedì 20 ottobre 2009
COMMENTA E CONDIVIDI
La proposta – formulata, fra gli altri, dal professor Dalla Torre – di fronteggiare le più recenti questioni generate nel conflitto fra politica e giustizia mediante la reintroduzione dell’autorizzazione a procedere per i parlamentari merita una discussione libera, attenta ai valori in gioco e all’equilibrio complessivo fra i poteri dello Stato. Nel suo testo originario, l’articolo 68 della Costituzione prevedeva – oltre alla garanzia della irresponsabilità per opinioni espresse e voti dati nell’esercizio delle funzioni di parlamentare, che non è stata modificata nella sostanza – una garanzia volta a proteggere i membri del Parlamento da procedimenti penali per atti diversi da quelli posti in essere nell’esercizio delle loro funzioni. La garanzia consisteva nella necessità di una autorizzazione a procedere da parte della Camera di appartenenza, in assenza della quale il procedimento penale veniva bloccato quasi in limine litis. La garanzia, osservavano gli studiosi dell’epoca, non dava luogo a un privilegio a vantaggio del parlamentare, sottraendolo a processo per atti che non avevano nulla a che vedere con le sue funzioni, ma consentiva alla Camera di svolgere le proprie con la partecipazione di tutti i componenti, senza che questi fossero condizionati da eventuali procedimenti penali (che avrebbero potuto riprendere alla fine del loro mandato). L’origine di questo tipo di meccanismi andava situata nell’epoca in cui i monarchi avrebbero potuto, mediante la giustizia requirente da essi controllata, interferire nei lavori parlamentari. Questo approccio molto ragionevole al problema nascondeva però una realtà che, soprattutto a partire dagli anni 80, venne assumendo tratti problematici, se non scabrosi. L’autorizzazione a procedere veniva sistematicamente negata dalla Camera di appartenenza, con la conseguenza che quasi mai un deputato coinvolto in un procedimento penale poteva essere processato. Inoltre la continua rielezione di non pochi deputati finiva per sottrarre ciascuno di essi al processo non per una sola legislatura, ma a tempo indeterminato. È per queste ragioni che – accogliendo proposte da più parti formulate (ad esempio del padre costituente e poi costituzionalista democristiano Costantino Mortati, nel suo noto manuale di Istituzioni di diritto pubblico, sul quale si formarono generazioni di studenti) – si giunse nel 1993 alla revisione costituzionale che restrinse il campo dell’autorizzazione parlamentare, ormai necessaria non più per lo svolgimento del processo, ma solo per disporre la limitazione di tre libertà particolarmente importanti: personale, di domicilio e di comunicazione, ritenute – queste sì – imprescindibili per consentire al deputato o senatore di partecipare ai lavori della Camera di appartenenza, e tutelate in deroga alle regole generali a protezione di un interesse della Camera e non del singolo membro dell’Assemblea. Reintrodurre oggi la garanzia prevista prima del 1993 esporrebbe proprio agli inconvenienti allora verificatisi. Una disciplina di quel tipo potrebbe funzionare solo in presenza di un rigore morale da parte della classe politica, che dovrebbe essere capace di utilizzare il diniego di autorizzazione a procedere solo in casi di evidente manovra persecutoria da parte della magistratura, e comunque solo in casi eccezionali. Ma l’impressione della classe politica attuale è opposta: essa sembra diventata più lassista di quella della Prima Repubblica, non più rigorosa di essa. Ove tuttavia la si ritenesse necessaria, la previsione di una autorizzazione a procedere dovrebbe essere vincolata a criteri rigorosi. Si potrebbe, ad esempio, congegnare un meccanismo simile a quello previsto per i reati ministeriali (che peraltro, va ricordato, sono reati commessi nell’esercizio della funzione di ministro, e per questo richiedono una protezione particolare, mentre il vecchio articolo 68 proteggeva il parlamentare anche nel caso ipotetico di un furto al supermercato): il processo dovrebbe essere di norma possibile, ma potrebbe essere bloccato da una dichiarazione approvata dalla Camera di appartenenza che affermi l’esistenza di una persecuzione contro il parlamentare in questione o che si opponga allo svolgimento del processo con un motivo qualificato. Per una tale deliberazione – che potrebbe spettare, se non alla Camera, a una sua Giunta o Commissione, composta in maniera proporzionale all’assemblea – dovrebbe poi essere prevista una maggioranza speciale (assoluta, se non qualificata), per evitare che la maggioranza del momento usi questo tipo di strumento per proteggere i suoi componenti. Ma più in generale occorre molta attenzione. L’antipolitica oggi dominante – a destra come a sinistra – non aspetta altro che la reintroduzione di uno strumento di questo tipo per deflagrare in chiassose proteste. Che una volta tanto non sarebbero solo infantili o nevrotiche, ma troverebbero qualche appiglio proprio in quel principio di eguaglianza in virtù del quale la Corte costituzionale ha recentemente travolto il Lodo Alfano.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: