Niente da aggiungere, verrebbe da dire dopo aver letto il messaggio sulla questione carceraria che il capo dello Stato ha inviato ieri alle Camere. Se non che siamo in Italia, siamo l’Italia. Siamo il Paese condannato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – ce lo ricorda, il presidente Giorgio Napolitano – per condizioni detentive che si avvicinano pericolosamente al confine che divide la pena giusta dalla tortura, talvolta oltrepassandolo. Siamo, inoltre, il Paese in cui negli ultimi venti anni il diritto penale (e con esso l’amministrazione della giustizia) è stato trasformato in un campo di battaglia politico, nel nome di una malintesa e sciagurata versione del bipolarismo condizionata da leader con molti interessi (e altrettanti conflitti) e purtroppo anche per responsabilità di una parte della magistratura. Si tratta di aspetti che cozzano tra loro, sono i due fattori il cui sterile prodotto è l’immobilismo: nulla si è fatto, salvo alcune lodevoli quanto isolate e quindi insufficienti iniziative, perché il secondo comma dell’articolo 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato») non restasse lettera morta. Molto si è detto e nulla si è tentato per riformare la giustizia in maniera finalmente omogenea e libera da velenosi sospetti su norme ad o contra personam.Di tutto ciò è ben consapevole, naturalmente, il presidente della Repubblica, che non a caso ha voluto concludere un atto ufficiale così importante come il messaggio alle Camere con l’invito a non cadere in «ingiustificabili distorsioni e omissioni». Per l’ennesima volta, ci permettiamo di aggiungere. Del resto, appena pochi minuti dopo la lettura del testo, c’era chi si arrovellava sulla possibilità di applicare o meno l’amnistia, indicata dal Quirinale come una possibile misura «straordinaria» (alla pari dell’indulto), al reato di frode fiscale per cui Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva. Ridurre tutto a questo sarebbe, per prima cosa, mancare di rispetto al capo dello Stato, il quale cita gli eventuali provvedimenti di clemenza generale solo dopo aver sottolineato l’esigenza di soluzioni strutturali come la depenalizzazione, le pene alternative al carcere e l’incremento dei posti disponibili nelle prigioni. In secondo luogo, significherebbe non aver colto il cuore della questione che presenta un curioso, e drammatico, parallelo con la pesante emergenza economica che ci troviamo a fronteggiare. Così come negli anni, infatti, siamo andati sconsideratamente accumulando debito pubblico sprecando denaro in privilegi o in forme di assistenzialismo che mortificano il concetto di Stato sociale, allo stesso modo abbiamo permesso che le celle e i tribunali arrivassero a traboccare di migliaia di persone e di milioni di fascicoli, grazie soprattutto alla "pan-penalizzazione" e a un ricorso eccessivo alla carcerazione preventiva.
Giustamente, quando era ministro guardasigilli, l’attuale vicepremier e segretario del Pdl Angelino Alfano parlava di «debito pubblico giudiziario». In passato, tra il 1953 e il 1990, abbiamo avuto in media un’amnistia ogni tre anni, quasi fosse un prodotto disgorgante versato in una tubatura intasata. Poi, rapidamente, tutto tornava come prima. Anzi, peggio. Stavolta non potrà, non dovrà essere così. Ieri lo ha detto con chiarezza solenne e inequivocabile il capo dello Stato. E in seria e libera assonanza noi di Avvenire lo avevamo scritto che un eventuale provvedimento di clemenza generale potrebbe avere senso e utilità solo dentro, e come coronamento, «di un finalmente efficace e condiviso percorso di riforma di istituzioni e sistema giudiziario». Non c’è, infatti, soltanto da superare il severo esame della Grande Chambre di Strasburgo, fissato a fine maggio. Occorre, e con urgenza, mettere fine alla vergogna delle carceri italiane, restituire dignità a chi vi è rinchiuso e a chi vi lavora, dare un senso a quel comma della Costituzione e al nostro essere italiani, ovvero cittadini di uno Stato che vorremmo definire convintamente "di diritto".
Se è vero, come ha detto il presidente del Consiglio Enrico Letta, che con il voto di fiducia della scorsa settimana si è di fatto chiuso un ventennio politico e che, come ha aggiunto ieri Napolitano, il clima politico «si è svelenito», allora nessun alibi, tanto meno se meschino o strumentale, è più accettabile. Non nell’interesse di uno, ma per il bene di tutti.