Si conferma e si precisa il quadro delineato quindici giorni fa dal primo turno amministrativo abbinato alle elezioni europee. Il voto (tristemente scarso) per i ballottaggi in Province e Comuni e il non-voto (imponente) per la consultazione referendaria sulla legge elettorale ribadiscono, infatti, che la netta prevalenza nei rispettivi campi di Pdl e Pd non sta proiettando l’Italia verso il bipartitismo. Ma confermano anche che l’elettorato – persino di fronte a chiamate alle urne che fatica ad assecondare – resta orientato verso un bipolarismo maturo, cioè responsabile (nella coesione programmatica) e chiaro (nei confronti dei cittadini). Tra le tante interessanti e interessate chiavi di lettura proposte, vorremmo proprio che questa fosse considerata come la più adatta a interpretare la clamorosa bocciatura di un referendum che – assegnando definitivamente ed esclusivamente al partito che raccoglie un voto in più degli altri il controllo sul Parlamento – avrebbe oggi enfatizzato in senso bipartitico la gara per il governo del Paese e domani, forse, avrebbe aperto le porte a rischiose 'dittature delle minoranze'. La storica sconfitta degli iper-maggioritari (più che tiepidamente appoggiati da Pdl e Pd, avversati da un po’ tutti gli altri) non assegna, però, palme di vittoria bensì doveri. E di questo, per fortuna, sembra emergere una certa consapevolezza. Dopo qualche propagandistico tentativo di piantare bandierine sulla montagna dei non-voti referendari, sono partiti alcuni messaggi importanti e soprattutto convergenti a proposito della necessità di riaprire il gran capitolo delle «riforme costituzionali condivise » e dell’opportunità, in questo contesto, di rivedere anche le regole elettorali. Buon segno, e ottimo intendimento. Come quello – per la verità ciclico, ma stavolta espresso addirittura dal ministro dell’Interno – di proporre una seria riforma dell’istituto del referendum per sottrarlo a usi inadeguati e astrusi e, dunque, al conseguente, inarrestabile e mortificante destino di svilimento a cui è stato consegnato. Vedremo se e come si sarà capaci di dar seguito a tali proponimenti nonostante le urgenze della battaglia politica (basti pensare alla possibile consultazione popolare sull’immunità processuale temporanea delle alte cariche istituzionali, il cosiddetto 'lodo Alfano'). L’esito del secondo turno amministrativo, per il resto, completa nel modo tutto sommato più plausibile lo scenario disegnatosi quindici giorni fa. Il centrodestra continua il suo radicamento sul territorio e guadagna Province e Comuni. Un risultato in linea con la forza attuale dei suoi due partiti- perno (Pdl e Lega) e con le mediocri posizioni di partenza (appena 5 Comuni capoluogo e 9 Province al cospetto dei 25 grandi municipi e delle 50 amministrazioni provinciali detenute alla vigilia del voto dal centrosinistra). Ora il panorama amministrativo è radicalmente diverso (Province 34 a 28 per il centrodestra, Comuni 16 a 14 per il centrosinistra) e nelle tre grandi regioni del Nord – con significative eccezioni in Piemonte, ma sempre meno in Lombardia e Veneto – risulta largamente segnato dal marchio pidiellin-leghista. Il centrosinistra, che cede terreno persino nelle tradizionali regioni rosse, è tuttavia in condizione di rimarcare il controllo che ha mantenuto su alcune sue storiche roccaforti, a cominciare da città importanti come Bologna e Firenze, e può esibire un successo di prestigio a Padova e una vittoria larga nella Bari sconvolta dall’inchiesta più chiacchierata e scottante del momento. Un bottino che poteva essere più modesto, ma che può essere considerato soddisfacente soltanto da chi, in casa democratica, si aspettava il tracollo. E ha fatto di tutto per limitare i danni. Si può, insomma, dire che il centrodestra ha vinto senza fare strame degli avversari e sentendo il peso delle nubi che circondano il premier e i suoi palazzi-simbolo. Oppure, scegliendo l’ottica dell’altra sponda politica, che l’alleanza imperniata sulla difficile coabitazione Pd-Idv è stata costretta dagli elettori a una ritirata che non è diventata una rotta. E che a volte, come nel caso della sconfitta più simbolica e dolente, quella alla Provincia di Milano, si è fatta – sino all’ultimo – testa a testa tra il presidente uscente di centrosinistra e il vincitore di centrodestra. In diverse realtà, le intese raggiunte dagli uni o dagli altri con l’Udc sono state decisive. Per i centristi questo è un vanto (la dimostrazione di un potere di coalizione) e un problema serio (la prova che ogni «autonomia» in un sistema bipolare è a tempo). Non certo una garanzia di futuro e per il futuro.