A volte una piccola storia può servire a tanti. Ci chiesero di metterci in gioco per ottenere il primo “cessate il fuoco” nella guerra in Cecenia, nel 1995. Ce lo chiesero gli amici russi, sopravvissuti a sette, undici, diciassette anni di Gulag. Accettammo, costruendo in sei mesi, lontano dai riflettori, addirittura in segreto, una catena di relazioni su cui correva solo un’energia povera ma fortissima: la fiducia.
Arrivammo al primo “cessate il fuoco” di quella guerra. Fu fissato dalle due parti – la Federazione Russa di Eltsin e la Repubblica della Cecenia di Dudayev – dalla mezzanotte del 29 maggio 1995 alla mezzanotte del primo giugno. Settantotto ore che, se avessero “tenuto” – cioè se non ci fosse stato “alcun tipo di sparo” e fossero state rispettate altre condizioni – sarebbero state il “segnale di fiducia reciproca” per avviare un primo tavolo di trattativa. Ma, esattamente alla quarantottesima ora, un diluvio di proiettili, missili e bombe fu lanciato da una parte e dall’altra. Il fallimento di quel primo “cessate il fuoco” ci fece uscire di scena e occorsero mesi perché altri riuscissero in quell’intento che aprì poi a una tregua e, conseguentemente, a un negoziato.
Desiderare un “cessate il fuoco”, nelle guerre, in ogni guerra, chiederlo ostinatamente, impegnarsi, crearne le molteplici condizioni, lavorare per ottenerlo è il segno autentico di chi vuole la pace.
Perché? Perché chi lo chiede lo fa a nome della comune umanità, discostandosi dalle logiche che spostano il “cessate il fuoco” sempre più in là: convenienza militare, strategica, economica e geopolitica. Noi lo chiedemmo semplicemente per le persone che stavano morendo, compresi i soldati. Sì, compresi i soldati!
Torno a quel maggio 1995. C’è un passaggio che può interessare ciascuno di noi. Dopo sei mesi di trattative segrete, veniamo chiamati al Cremlino: erano le ore 14 del sabato 26 maggio. Seduti al tavolo, noi di qua e la delegazione del presidente Eltsin di là, ci chiedono: «Cosa volete? Salvacondotti per i generali? Per le loro famiglie? Per la famiglia del presidente? Dove vogliono andare? Un conto in banca in Svizzera?». Noi ci guardammo attoniti e, toccandoci le ginocchia sotto il tavolo per incoraggiarci e intendendoci al volo con gli sguardi, rispondemmo: «Forse non ci siamo capiti: noi vogliamo che la guerra finisca un minuto prima per salvare una vita in più».
Ripensando negli anni fino ad oggi a quella risposta disarmata, sfrontata per l’assoluta debolezza di chi la diceva (noi, persone sprovvedute, come potrebbe essere stato chiunque), vi colgo anzitutto l’indignazione, motore potente a disposizione di ogni persona umana, antidoto contro il cinismo.
Ma quella risposta, così immediata, che mirava a tentare di salvare una vita, qualunque vita, di qualsiasi parte, formò una sorta di dna per ogni azione e pensiero successivi. Esprimevamo non una equidistanza, ma un equo-coinvolgimento per la vita delle persone. Mettevamo su quel tavolo la priorità assoluta. Un esito pratico di quel grido di san Paolo VI: «Col dialogo tutto è possibile, con la guerra tutto è perduto». Ci ponevamo come “terzi”, non una terzietà professionale, istituzionale, ma semplicemente umana. Una postura consolidata nel tempo ascoltando e ospitando le narrazioni (plurali!) delle differenti parti dei conflitti armati.
Questa storia mi pare sia ispiratrice per ciascuno di noi: ognuno infatti può aderire, parlare e agire in questa prospettiva. Perché per giungere al “cessate il fuoco” occorrono molte condizioni. Una è quella della coscienza civile delle persone e delle nazioni, specie quando le leadership falliscono e sembrano impegnate in politiche “contro” i propri popoli.
«C’è qualcosa di peggiore della guerra? – si chiedeva Maria, giovane armena che oggi siede nel parlamento di Erevan –. Sì! Abituarsi alla guerra», era la sua risposta. Cioè a una logica di estraneità, indifferente, fatalista e cinica, coltivata nell’illusione che la guerra – come la malattia – tocchi sempre agli altri. Suggellata poi dalla teorizzazione che le persone non possano fare nulla di efficace in favore della pace.
La guerra nel tempo globale distrugge proprio le convinzioni della cittadinanza attiva, la forza delle testimonianze, spinge alla radicalizzazione, dissemina veleno, suscita aggressività e violenza in mille forme, inquina la mente e il cuore. Come il Covid-19, l’Ucraina-22 o il Kibbutz Be’eri-23 o il Gaza-24 non ci fanno ammalare e morire tutti soltanto in un luogo, sotto le mitragliatrici, le bombe e i missili, ma ovunque.
In tempo di guerra, il tempo e lo spazio della pace nascono nel cuore delle persone e delle loro relazioni, muovono dall’indignazione e compiono il passo possibile. Nel tempo di guerra le immagini e le parole che viaggiano entrano e infettano. Dai messaggi che ogni giorno si rincorrono e si moltiplicano, sembra che non ci sia altra via che schierarsi dietro gli slogan di parte che oscurano il dolore “degli altri”, banalizzano la sofferenza di tutti e tradiscono la complessità della storia; sembra che ci si debba per forza arruolare, afferrati dal vocìo che copre l’ignoranza e zittisce la ragione; sembra che non ci sia altra soluzione che mettere l’elmetto e assumere unicamente la logica delle necessità militari o geopolitiche.
Così il “cessate il fuoco” arriverà solo quando le parti valuteranno che è conveniente rispetto alla prosecuzione dei combattimenti. “Cessate il fuoco” lo possiamo dire e chiedere tutti. Anche per chi lo desidera – e sono tanti in ogni parte dei conflitti armati... forse la maggioranza? – ma non può reclamarlo perché finirebbe in galera.
Dov’è l’Europa dei cittadini, delle comunità locali, dei popoli? Dov’è cioè quell’Europa che assume gli autentici interessi di pace e ne è l’interprete con espressione unica? Ma, dove siamo noi? Noi che abbiamo voce e possiamo dire ovunque – case, scuole, ambienti di lavoro, chiese, moschee, sinagoghe, strade e piazze – “cessate il fuoco!”? Le nostre relazioni, le coscienze vigili e attive, le azioni che si moltiplicano sono condizioni in nostro potere per il “cessate il fuoco”.
Cessare il fuoco e chiedere, però, di riconoscersi. Non c’è altra via: riconoscersi reciprocamente, riconoscersi il diritto a esistere e diventare l’uno il custode dell’altro. Senza questo atto “definitivo” fermare temporaneamente le ostilità sarà sempre più difficile – gli israeliani come custodi primi di uno stato palestinese e i palestinesi custodi primi dello stato d’Israele. Chi oserà pensare questo, dirlo, praticarlo? Chi lo ha tentato ci ha rimesso la vita. Perché il riconoscimento reciproco sembra – a uno sguardo superficiale – andare contro quel fiume di dolore che cresce dal 1948, da Auschwitz, dalle guerre coloniali, dai pogrom e dai ghetti (la storia non inizia mai da una data arbitraria), un fiume che, all’emergere di questo pensiero, sembrerebbe urlare “tradimento!”. Eppure solo il riconoscimento reciproco è la via. Nessuna riconciliazione stabile è avvenuta senza trasformare le ingiustizie subite e i dolori conseguenti in un progetto realizzato insieme. Riconoscimento delle persone prima che degli stati. E non solo in Palestina e Israele!
Lì la terra e la storia sembrano il concentrato di tutte le complessità del mondo. Il riconoscimento muterebbe il sentimento profondo quanto la stessa identità (perché l’identità non può essere ingabbiata nel dolore del passato). I morti israeliani e i morti palestinesi, tutti gli uomini e tutte le donne, i ragazzi e le ragazze, i bambini e le bambine potranno avere un parziale riscatto solo se arriverà la pace, frutto di un imprescindibile riconoscimento e di una paradossale mutua custodia. Paradossale nel tempo della più acuta teorizzazione – dichiarata e praticata – della eliminazione reciproca.
Continuare con questo scempio, dando voce intima all’eco lontana “son forse custode di mio fratello?” significa spezzare ogni possibilità di fiducia e far rinascere incessantemente Caino.